giovedì 13 maggio 2010
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Seconda solo alla Cina, che tuttavia ha una popolazione enormemente superiore. Se fosse un dato relativo alla crescita economica, la Repubblica islamica dell’Iran potrebbe esserne giustamente fiera. Purtroppo, si tratta di una lugubre classifica – di cui ci si può solo vergognare – che riguarda il numero delle condanne a morte. Ufficialmente 339 nel 2009, con un aumento vertiginoso rispetto alle 282 del 2008. Ma in realtà sono molte di più, almeno 400, dato che il governo fornisce dati incompleti. Più di una condanna a morte al giorno, insomma. Lo scorso weekend i giustiziati sono stati ben undici. Sei trafficanti di droga e cinque attivisti curdi legati a un’organizzazione definita «terroristica» da Teheran. E fra di essi anche una donna, impiccata – come gli altri – nel tristemente famoso carcere di Evin, a Teheran. Per i loro avvocati si è trattato di una condanna politica, senza prove concrete e con confessioni estorte tramite la tortura.Una denuncia se non vera, almeno credibile. Perché ogni iraniano sa bene cosa siano le prigioni del Paese, soprattutto quelle in cui vengono rinchiusi intellettuali scomodi e attivisti politici: zone grigie in cui le torture fisiche e gli stupri si mischiano alle pressioni psicologiche più vergognose; buchi neri ove gli arrestati spariscono per mesi, senza che i parenti abbiano informazioni, senza incidenti probatori e accuse specifiche. Con l’ascesa degli ultraradicali di Ahmadinejad e le proteste di piazza dello scorso anno contro i brogli elettorali, gli arresti e le condanne a morte sembrano essere aumentate; come un monito lanciato dai brutali nuovi "padroni" della Repubblica a chi si ostina a credere sia ai diritti sostanziali sia al rispetto delle forme del sistema politico iraniano.L’amministrazione della giustizia è nelle mani dei servizi segreti, del clero sciita più reazionario e dei pasdaran, che hanno dimostrato di non esitare a usarne il lato oscuro. Con la fine della monarchia e la creazione della Repubblica islamica nel 1979, Khomeini impose il ritorno alle pene previste dalla legge religiosa islamica (la sharia), inclusa la lapidazione e la punizione di costumi morali ritenuti devianti, dall’adulterio alla omosessualità alle relazioni fra donne musulmane e uomini di altre religioni.Negli anni, gli eccessi rivoluzionari si sono attenuati, ma permangono pratiche inaccettabili: nonostante i dinieghi, la lapidazione non è del tutto eliminata; continuano le impiccagioni nelle pubbliche piazze o le condanne eseguite dai parenti delle vittime di un omicidio. In questo caso, il regime non le conteggia come esecuzioni, bensì come "risarcimento", ossia il prezzo del sangue secondo la legge del taglione. Vengono giustiziati anche minorenni, dato che tutti i cittadini sono punibili con la massima pena dopo il raggiungimento dell’età legale, pari a 15 anni per i maschi e a solo 9 (o 11) anni per le ragazze.Un quadro desolante, nel quale l’elemento femminile è spesso quello più debole e con minori difese: dalle punizioni brutali per le prostitute a quelle verso le donne che si ribellano a situazioni di oppressione familiare. Dalle ragazze arrestate con l’accusa di essere vestite in modo inappropriato (bad-hejab), o per aver ascoltato concerti non autorizzati, alle violenze contro le studentesse che hanno difeso nelle piazze i loro diritti politici. E tutto ciò in una realtà, come quella iraniana, che al contrario è fra le più avanzate nel Medio Oriente in tema di partecipazione femminile nella società, nella cultura e nella stessa politica. E forse è qui il contrasto più stridente fra la grettezza del regime al potere e la modernità niente affatto smodata del vero Iran. Peccato che al tavolo della commissione Onu per i Diritti delle donne sia stato da poco chiamato – con una decisione invero incomprensibile e assurda – l’Iran ufficiale e non quello reale, la cui voce è sempre più flebile nella cupa notte politica iraniana.
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