venerdì 13 giugno 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
La globalizzazione ha portato a un aumento della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, oppure ha ridotto le distanze portando benessere a fasce più ampie di popolazione? La questione è ampiamente dibattuta. Uno degli eventi più importanti nel confronto culturale economico contemporaneo, ad esempio, è rappresentato dal dibattito scaturito attorno al libro "Il capitale del XXI secolo" di Thomas Piketty. L’economista francese ha raccolto, assieme ad altri colleghi, un’enorme mole di dati sulla distribuzione del reddito e della ricchezza nel mondo. Una delle sue conclusioni principali è la tendenza, in quest’epoca di globalizzazione, alla crescita della diseguaglianza, a livello mondiale, nella distribuzione della ricchezza.Recentemente (come già accaduto per Rehinart e Rogoff in riferimento alla loro tesi sulla virtuosità del rigore fiscale) i dati di Piketty sono stati criticati dal Financial Times e da uno specialista "indipendente" che sull’autorevole giornale ha sostenuto come in realtà la diseguaglianza della ricchezza non stia aumentando. Non si tratta di una questione di lana caprina, perché attorno a questi dati si gioca la partita tra i sostenitori del laissez-faire e gli interventisti. Per l’incrollabile fede nelle virtù del sistema economico dei primi, la "mano invisibile" del mercato e la teoria dello "sgocciolamento" (trickle down) giustificano il fatto che ciascuno (cittadini e imprese) persegua meramente il proprio interesse. A trasformare la somma di egoismi in benessere per tutti ci pensano i due meccanismi automatici: la "mano invisibile" della concorrenza annulla i profitti a beneficio dei consumatori, mentre lo "sgocciolamento" fa affluire la ricchezza anche ai più poveri, secondo il noto principio che stabilisce che quando la marea sale porta in alto tutte le barche (a rising tide lifts all boats). Se bastassero questi due meccanismi, diventerebbe vero l’assunto di Margaret Tatcher, che amava sostenere che «la società non esiste», e che «ci sono solo gli individui».Individui, appunto, dediti al loro arricchimento personale mirabilmente trasformato in benessere per tutti dall’azione dei meccanismi automatici di mercato e dal minimo intervento possibile dello Stato. A che servirebbe, allora, l’economia civile e lo sforzo diffuso di cittadini e imprese nell’accompagnare responsabilità sociale e ambientale al perseguimento del proprio tornaconto?L’economia civile serve per almeno nove motivi. Primo, alla convergenza condizionata, che riduce le distanze di reddito medio pro capite tra Paesi, si accompagna un aumento delle diseguaglianze interne di reddito e, ad ogni modo, l’aggiustamento automatico è troppo lento. Ci sono oggi 2 miliardi e 700 milioni di persone che vivono con meno di due dollari al giorno e molte di queste non vedranno alcun aggiustamento nel corso della loro vita, sempre che tutto continui come negli ultimi anni. Secondo, esistono gruppi di "incagliati" non in grado di attingere ai benefici di mercato: la marea solleva tutte le barche eccetto quelle con un’ancora troppo corta che invece vengono travolte e vanno a fondo. Terzo, la "crescita-non-importa-come", magari facendo crescere le grandezze contabili con le attività illegali non produce vero benessere. L’economia civile spiega come correggere la rotta senza cadere nell’eccesso opposto della decrescita. Quarto, l’applicazione della logica del laissez-faire al settore più importante dell’economia mondiale, quello finanziario, ha dimostrato come il mercato lasciato a se stesso produce "mostri" troppo grandi per fallire, che hanno cambiato le regole a proprio vantaggio e, con la massimizzazione dell’avidità a breve, portato l’intero sistema economico mondiale sull’orlo del fallimento. Quinto, esistono "prototipi" di imprese di economia civile che hanno dimostrato un’efficienza "a tre dimensioni" (creazione di valore economico socialmente e ambientalmente sostenibile) molto superiore a quella delle imprese tradizionali.Sesto, gli stessi meccanismi del mercato presentati come "automatici", tali non sono affatto, ma dipendono dalla sensibilità, dal sudore e dal sangue delle persone in carne e ossa, come testimoniano le recenti battaglie sindacali in Cina dove i salari stanno salendo rapidamente. Settimo, il buon funzionamento della "mano" delle istituzioni dipende dal capitale sociale dei cittadini e del sistema produttivo, senza il quale il sistema logora e distrugge la buona politica. Ottavo, gran parte della vita si vive nelle organizzazioni produttive e, quand’anche welfare e mercato fossero perfetti, le persone aspirano a una vita migliore nella quale le proprie motivazioni ideali siano più allineate con quelle delle aziende in cui operano. Nono, in questa fase della globalizzazione istituzioni e regole fanno fatica a formarsi e per questo motivo l’azione dal basso dei cittadini e delle imprese è fondamentale per garantire il bene comune.I fanatici del laissez-faire sembrano dei ciclisti che si innamorano della loro bicicletta, vanno in estasi nel contemplarla smettendo di pedalare e inevitabilmente cadono con tutta la bicicletta. Detto questo, non è neanche la negazione in assoluto delle (limitate) virtù del mercato la strada giusta per contrastare alcune ottusità del pensiero liberista (che nasconde quasi sempre la difesa dei grandi monopoli). Per questi motivi, e per altri ancora, giusti o meno che siano i calcoli di Piketty, il futuro dell’umanità è nell’economia civile e nella crescente importanza del ruolo del capitale sociale e della responsabilità sociale ed ambientale di cittadini e imprese.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: