giovedì 27 marzo 2014
​La durata dei processi in Italia è un freno allo sviluppo.
di Leonardo Becchetti
COMMENTA E CONDIVIDI
Chi ha dimestichezza con gli studi econometrici sulle determinanti dello sviluppo economico sa bene che uno dei fattori chiave dello stesso (assieme all’adozione delle innovazioni, all’istruzione, al capitale sociale e all’accesso alla rete) è la qualità delle istituzioni. E nella qualità delle istituzioni la variabile più significativa in molti studi statistici risulta essere la certezza dei diritti proprietari. La spiegazione è semplice e intuitiva. Gli imprenditori investono e rischiano avviando attività che creano valore e che sfidano il futuro se hanno la certezza sui diritti di proprietà futuri derivanti dalla loro intrapresa. Un elemento chiave per la certezza dei diritti proprietari è l’efficienza della giustizia civile, purtroppo un tasto dolente per il nostro Paese (che, secondo la Banca d’Italia, ci costa almeno un punto percentuale di Pil).
Qualche giorno fa la triste posizione italiana nella classifica mondiale è stata aggiornata in negativo. In Italia (maglia nera nell’Ue) ci vogliono mediamente 590 giorni per una sentenza di primo grado nelle cause civili (erano 493 nel 2010), 1.161 per una sentenza di secondo grado a 1.470 per quella della Cassazione (siamo 160esimi su 185 Paesi del mondo analizzati dalla Banca Mondiale). Gli aneddoti confermano il problema. Più volte ho sentito imprenditori affermare di aver spostato la propria produzione dal nostro Paese (o di non aver deciso di stabilirci la sede legale) per l’impossibilità di avere tempi certi nelle cause civili. E Il governo Monti aveva giustamente individuato in questo uno dei punti deboli cruciali del sistema Paese, una delle dimensioni più importanti nello spread reale tra Italia e Germania (dove i tempi delle cause sono tra la metà e un terzo).
La via tentata da quel governo fu lo sviluppo dei metodi di conciliazione, l’allargamento della tipologia di cause per le quali non si ricorre in secondo e terzo grado e il rafforzamento dell’istituto della lite temeraria (dove chi solleva cause irrilevanti ne paga le conseguenze in termini di spese legali). I risultati non sono stati esaltanti ma l’aver eliminato dalle priorità immediate dell’azione di governo questo problema così importante appare preoccupante. Il capitolo dovrebbe essere riaperto da Renzi a giugno dopo aver sistemato altre urgenze, ma forse, assieme all’annuncio della messa all’asta di 100 auto blu, almeno una delle slide del premier poteva essere dedicata a questo capitolo. Che tra l’altro, non prevedendo in principio tagli di spesa, non ha la controindicazione di molte delle misure annunciate sotto il capitolo spending review che intendono perseguire un risultato incerto (lo stimolo della domanda privata via riduzioni fiscali) attraverso un effetto certo depressivo di riduzione della domanda pubblica. Accorciare i tempi delle cause civili è complicato e richiede tempi lunghi (forse non paganti nella prospettiva politica sempre più schiacciata sul breve). Bisogna intanto riconoscere che due delle cause principali del problema sono, in termini di confronto internazionale, l’eccessiva litigiosità degli italiani che sembrano provar gusto nel portare avanti lunghe e sanguinose cause condominiali su piccole questioni (abbiamo un rapporto di 3.958 cause per 100.000 abitanti, doppio rispetto alla Germania) e l’eccessivo numero di avvocati in rapporto alla popolazione (379 per 100.000 abitanti contro i 106 nell’Ue) e in rapporto al numero dei magistrati (tra l’altro in carenza rispetto all’organico potenziale di più del 15%).
Inevitabile in queste circostanze l’ingolfamento dei tribunali che, in molti dei casi e delle procedure, non sono peraltro ancora passati dall’era della carta a quella della rete. Poco efficaci sembrano essere ai fini della soluzione del problema soluzioni adottate dai governi passati come quelle di chiudere tribunali minori (aumentando l’ingolfamento). Poiché non sarebbe giusto demonizzare una categoria a rischio di "proletarizzazione" visti i numeri pletorici (gli avvocati) e dato che sembra impossibile, visti i vincoli di spesa pubblica, risolvere il problema aumentando troppo il numero di magistrati le vie d’uscita possibili sono altre. Tra di esse l’accelerazione della telematizzazione dei processi recuperando in questo il ritardo con gli altri paesi europei, l’accorpamento delle udienze riducendo l’eccessiva frammentazione attuale e la degiurisdizionalizzazione ove possibile delle questioni che non meritano di ingolfare i tribunali e certamente non richiedono tre gradi di giudizio.
È di qualche settimana fa la notizia della cassazione che si pronuncia su una causa per stabilire se chiamare la suocera vipera sia reato. Se si riuscisse ad evitare che questioni come queste arrivino al terzo grado sarebbe già un bel risultato. Occorrerebbe pertanto consentire l’appello nei soli casi in cui oggi è possibile il ricorso per Cassazione e limitare la possibilità di ricorrere in cassazione ai soli casi che, a giudizio della stessa Corte, richiedano un indispensabile intervento nomofilattico (ovvero l’esigenza di garantire l’osservanza della legge, la sua interpretazione uniforme e l’unità del diritto). Per tal via, oltre a sottoporre le impugnazioni ad un filtro maggiore, riducendo i tempi per la definizione irrevocabile del giudizio, sarebbe possibile "recuperare" un buon numero di magistrati dalla Cassazione (oggi sono 350 circa) da destinare alle Corti di Appello. Un’iniziativa del genere richiederebbe peraltro un intervento sull’art. 111 della Costituzione nella parte in cui assicura al cittadino il diritto di proporre ricorso in cassazione per violazione di legge.
Un lato altrettanto importante dal quale affrontare la questione è però quello degli incentivi degli avvocati. È evidente infatti che qualora i loro proventi risultino correlati positivamente con la durata delle cause, il loro numero preponderante produrrebbe automaticamente un allungamento dei tempi della giustizia. La liberalizzazione delle tariffe decisa dal governo Monti ha operato in questo ambito eliminando il vincolo diretto tra numero di attività, durata del processo e parcelle. Successivamente il governo ha fatto marcia indietro su questo punto. Approfondendo la questione in realtà la parcella dell’avvocato non dipende direttamente dalla lunghezza ma dal numero di attività e anche dalla soddisfazione del cliente in quanto la tariffa è di fatto contrattata tra le parti a seconda delle vicende del processo.
Dunque è possibile ipotizzare uno scenario virtuoso di riduzione dei tempi (e solo in parte delle attività) per i fattori discussi sopra, maggiore soddisfazione (e disponibilità del cliente) e tariffe comunque soddisfacenti per gli avvocati stessi. In tal caso la resistenza al cambiamento sarebbe senz’altro minore. Un altro lato su cui potenzialmente agire è quello dell’aumentare il grado di responsabilità monetaria di chi indice una causa nel caso in cui la perde trasferendo sul medesimo una parte maggiore dei costi che ora ricadono prevalentemente sulla collettività. Anche se iniziative di questo tipo vanno realizzate con cautela visto il rischio di ridurre le possibilità di accesso alla giustizia per i meno abbienti. Il tema della riduzione della durata dei processi civili è dunque complesso e i tempi per la sua soluzione non brevi. Ma è così importante da meritare un gruppo di lavoro nel nuovo governo Renzi.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: