martedì 10 febbraio 2015
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​Signor direttore,
 
su “Avvenire” avete scritto spesso di «famigliafobia». A parte l’orrore di leggere un termine che unisce famiglia in italiano con fobia, greco antico – che neanche D’Annunzio avrebbe accettato – e che invece sarebbe dovuto essere appunto Oikiofobia, eventualmente, si da il caso che quanti soffrono di oikiofobia siate proprio voi! Sono gay, ho una madre e avevo un padre, ma ho anche una sorella, un cognato e due nipoti... Altri sono gay o lesbiche o transessuali e hanno figli o compagni con i quali dividono la vita “come se” fossero una famiglia riconosciuta dalla legge... Alcuni si sono fatti riconoscere questa famiglia legalmente all’estero, altri, anche in Italia si sono fatti riconoscere questa famiglia davanti a un Dio cristiano, ebraico, buddista e perfino musulmano. Noi abbiamo una famiglia (oikia, in greco antico) d’origine e una famiglia (sempre oikia) acquisita, di cui voi avete paura. Siete oikiofobici. Vabbè, io non ho una famiglia acquisita, sono un single impenitente, o una zitella... et “je suis Charlie”!
Manlio Converti
Sto al punto vero, gentile signor Converti. I nostri legami familiari. Vorrei dirle che lei pone male la questione, perché tutti abbiamo una famiglia. Ma so che non è così: non tutti purtroppo abbiamo una famiglia. E non ce l’abbiamo perché la vita a volte nega (anche dolorosamente) ciò su cui, invece, lei e io possiamo contare: una famiglia d’origine. E le nostre scelte, la nostra condizione, non sempre ci portano a costruire una famiglia che sia continuazione di quella e, contemporaneamente, nuova origine: io ce l’ho, lei che si definisce «single impenitente» anzi, provocatoriamente, «zitella» no. Lei si dichiara omosessuale. Se questo è vero – e io credo che lo sia –, lei non è genitore perché non ha voluto e non ha potuto esserlo. Ma immagino bene che lei possa essere “generativo” in altro modo (anche perché da cristiano ne ho conosciuti di uomini e di donne capaci di vivere straordinarie paternità e maternità spirituali, così vere, generose e intense da occupare anche “carnalmente” la loro vocazione). Magari generativo in questo modo lei lo è – vedo che lo rivendica con orgoglio – da zio presente, utile e affettuoso. Questo però non cambia il dato di fatto da cui sono partito: tutti – proprio tutti – abbiamo una madre e un padre che ci hanno generato. E tutti vogliamo sapere da chi proveniamo. Vorremmo sapere anche dei padri dei nostri padri dei nostri padri. E delle madri che, generazione dopo generazione, hanno portato in grembo la vita che oggi siamo. Tutti abbiamo diritto a questa conoscenza, non sempre umanamente possibile. È diritto nostro ed è diritto di ogni nostro fratello e sorella, per sangue e per umanità. È diritto di ogni figlia e figlio, di ogni nipote. Abbiamo cioè diritto di conoscere la storia che si continua nella nostra carne e nella nostra anima. E abbiamo diritto a non subire passivamente ingegnerie sociali tese a trasformare la nostra lunga storia di persone in un condensato desiderio individuale, la genealogia in un catalogo di laboratorio, la preziosa e naturale catena delle nostre famiglie d’origine in una sequela di avvenimenti singolari e artificiali (dove spesso o l’una o l’altro di coloro che sono biologicamente madre e padre vengono rimossi, cancellati, negati...). È con questa idea che siamo in polemica, gentile signore, non con ciò che ogni persona è e vive, non con ciò a cui anela. Siamo in polemica con chi nel nome di una “nuova famiglia” e del “diritto” individuale ai figli vorrebbe cancellare le stesse parole «madre» e «padre». Questa è la famigliafobia che denunciamo. Per ragione, con fede, con rispetto per la vita e per la verità di ogni persona, certi di essere infine capiti anche da chi oggi non ascolta. Lo facciamo Costituzione alla mano. E ieri la suprema Corte di Cassazione – confermando che non esiste un “diritto” al matrimonio gay – ha ridato forza a chi, come noi, pensa che sia possibile perseguire una “via italiana” per tutelare le unioni di fatto tra persone che non possono (o non vogliono) sposarsi. Una via che non confonda ciò che non deve essere confuso.PS Oikiofobia, dice lei. Non sono più “grecista” (si fa per dire) dai tempi del Classico. Ma allora perché non oikofobia che suona meglio? Ma siamo sinceri: se avessimo scritto così chi avrebbe capito di che cosa stavamo parlando? Meglio farsi capire. Molto meglio.
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