venerdì 1 maggio 2015
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​«Che schifo...». Mettete al posto dei puntini qualunque vocabolo vi venga in mente e molto probabilmente su Facebook, il più grande social network del mondo, troverete una pagina dedicata “all’argomento”. C’è di tutto. In un campionario di orrori e di offese che non risparmia nessuno. Nemmeno le religioni, i malati, i vecchi e i poveri. Nemmeno, è il caso delle ultime ore, i neonati e i bambini Down. Nessuno. Qualunque persona si imbatta in queste pagine, prova rabbia, indignazione e voglia di reagire. La prima domanda che si fa è: perché Facebook permette tutto questo?La risposta non è semplice, ma ha una premessa che non vi piacerà: Facebook non ha alcun interesse a moderare la sua “comunità”. Non è né un educatore, né un genitore, né un insegnante, né una persona con coscienza. Facebook è un’azienda votata al business. Ai soldi. E per farli deve avere il maggior numero di iscritti e il maggior traffico possibile. Quindi tiene le porte aperte a tutti, con la sola eccezione dei terroristi e dei criminali conclamati. E qualunque contenuto “forte”, anzi così “forte” da far provare disgusto agli utenti, tutto sommato va bene perché genera traffico. Con commenti, insulti, l’apertura di gruppi contrari e quant’altro. Per farvi capire come si muove l’azienda, se un Governo protesta per la presenza su Facebook di contenuti che ritiene illegali, la società («dopo averli esaminati») spesso li rimuove solo nella nazione in oggetto, ma in tutto il resto del mondo restano visibili.Apparentemente è (per essere gentili) un paradosso. Come quando il social ha rimosso foto di donne che allattavano «perché sconvenienti» (coi nuovi standard non succede più). In realtà si tratta di una strategia precisa: Facebook vuole apparire come un paladino della libertà, di tutte le libertà espressive, anche di quelle più estreme.La soluzione – penserete – siamo noi utenti. Che dobbiamo vigilare e protestare con forza ogni volta che incappiamo in pagine offensive fino a farle chiudere. Anche stavolta la realtà vi deluderà. Facebook ha sì creato degli Standard della Comunità e ha persino attivato un servizio di segnalazione dei contenuti inappropriati, ma «la segnalazione di un contenuto non ne garantisce la rimozione». E ancora: «La quantità di segnalazioni non influenzerà la decisione di rimuovere un contenuto». Quindi, a dar retta al social, protestare (anche in massa) non servirebbe a niente.A questo punto sarebbe lecito pensare che questo social sia (letteralmente) “amorale”. Invece, una sua “morale” (tra cento virgolette) ce l’ha. Facebook – anche se non lo dice esplicitamente – “pesa” il valore delle pagine e dei profili. Se hanno pochi fan e generano poca indignazione, le ignora. Se crescono troppo e quindi provocano una forte ondata di indignazione, allora le mette sotto controllo e, nel caso, le blocca. Ma, quasi sempre, sono blocchi momentanei, che finiscono appena le acque si sono calmate (com’è successo anche a qualche politico italiano). Per questo non bisogna arrendersi. Dando però il giusto peso all’orrore che incontriamo (tutte le pagine “eccessive” di solito hanno pochissimi fan e più insulti degli utenti che messaggi di approvazione). Una delle mode in voga sul web infatti consiste nel creare contenuti che producano orrore e indignazione. Perché far arrabbiare una comunità – e magari finire sui giornali per lo “scandalo” – fa sentire grande chi è infinitamente piccolo.
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