martedì 18 ottobre 2011
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​«Per fede uomini e donne hanno consacrato la loro vita a Cristo, lasciando ogni cosa per vivere in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità (..). Per fede tanti cristiani hanno promosso un’azione a favore della giustizia per rendere concreta la parola del Signore, venuto ad annunciare la liberazione dall’oppressione». In queste parole di <+corsivo_bandiera>Porta fidei<+tondo_bandiera> – la Lettera apostolica di Benedetto XVI per l’indizione dell’Anno della Fede – c’è il ritratto di padre Fausto Tentorio, il missionario del Pime ucciso domenica, nell’ormai tristemente famosa isola filippina di Mindanao.Qualcuno ci vedrà semplici coincidenze, ma a noi piace osservare che la sua morte è avvenuta a poche ore dalla pubblicazione del documento col quale il Papa rilancia con forza l’urgenza dell’evangelizzazione a 360 gradi e a una settimana esatta dalla Giornata missionaria mondiale, che si celebra domenica prossima.Conoscevo padre Fausto Tentorio. L’ultima volta l’ho incontrato due anni fa a Kidapawan, presso la sede della diocesi cui apparteneva. Con quella faccia da eterno ragazzo, pur alle prese con un’inesorabile calvizie (che amava nascondere sotto coloratissime bandane), mi aveva raccontato della quotidianità della sua missione, dei lunghi e faticosi viaggi in moto e jeep su strade a dir poco precarie; mi aveva detto delle visite ai villaggi sperduti, del tentativo di organizzare i "suoi" tribali manobo per difenderne i diritti. Si appassionava, parlando di loro, lui che – per il resto – era piuttosto schivo nel raccontare di sé.Se c’è un tratto, infatti, che colpiva di padre Fausto è proprio la «semplicità evangelica» di cui parla Benedetto XVI. Da buon brianzolo, era un uomo concreto: non amava mettersi in mostra, per lui l’importante era mostrare, con le opere più che con le parole, che un’autentica liberazione dall’oppressione è possibile, per chi si mette alla scuola del Vangelo.Aveva trovato nell’Arakan Valley, una località sperduta di Mindanao, il luogo dove testimoniare la sua passione per Cristo e dove provare a costruire una risposta evangelicamente alternativa all’economia dello sfruttamento e dell’ingordigia.Dopo lunghi anni di servizio gomito a gomito con i tribali del luogo, era riuscito a formare e organizzare le piccole comunità manobo, disperse tra colline e montagne. Sapeva bene che tale impegno significava dare fastidio. Il suo anziano confratello Peter Geremia – che per anni si è dedicato alla causa dei tribali, sfidando anche autorità e tribunali – nel passargli il testimone l’aveva messo in guardia: perseguire la giustizia, in un contesto arroventato come quello, vuol dire fronteggiare interessi nemmeno troppo occulti, poteri davvero forti. E soprattutto passare, inevitabilmente, per guastafeste. Perché chi vorrebbe portar via le terre ancestrali ai loro legittimi possessori non va molto per il sottile, quando si tratta di raggiungere l’obiettivo.Padre Tentorio ne era ben consapevole: qualche anno fa era sfuggito alle minacce di un gruppo armato, nascondendosi. Così come sapeva che, nelle cattolicissime Filippine, numerosi missionari (confratelli del Pime e non solo) hanno pagato con la vita, negli ultimi anni, la loro testimonianza di fede autentica e carità disinteressata. Non era un eroe in cerca di gloria, ma nemmeno un ingenuo ignaro di quale angolo difficile del pianeta gli fosse stato assegnato.E tuttavia la vita di padre Fausto si è conclusa nel segno del martirio. Un martirio inutile, agli occhi di qualcuno. Chi ha fede, però, sa che quel sangue non è stato versato invano, ma ha suggellato, lì a Kidapawan come sempre altrove, l’amicizia esigente tra Cristo e il suo popolo.
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