domenica 13 marzo 2011
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Sbagliare fa parte della normale fisiologia dell’agire. Perseverare nell’errore, anche in diplomazia, può essere diabolico. Forse non a caso il leader di un’ipotetica Europa unita assume spesso nella letteratura un carattere luciferino, come nel Racconto breve dell’Anticristo di Solov’ëv e nel più recente romanzo Il nemico di Michael O’Brien. Nessuna puzza di zolfo oggi a Bruxelles, sia chiaro, ma qualche imbarazzo e qualche titubanza di troppo di fronte alla crisi del Maghreb, certamente sì. Tralasciamo pure le incoerenze e le volute omissioni più patenti del passato, quando scendere a patti con autocrati di varia ferocia era ritenuto il male minore rispetto al rischio fondamentalista e al caos che avrebbe potuto mettere in pericolo gli approvvigionamenti energetici e aprire le rotte delle migrazioni verso la sponda settentrionale del Mediterraneo. Scelta una linea di totale appeasement, la cosa più grave è stata lasciarsi completamente sorprendere dalle proteste e dal loro esito rivoluzionario in Tunisia e in Egitto. E dal contagio in Libia. Davanti al fatto compiuto, è stato inevitabile fare buon viso a cattivo gioco, con almeno l’alibi (sincero o meno) di un cammino verso democrazie non soltanto di facciata. Ma sarebbe del tutto illusorio pensare che la situazione a Tunisi e al Cairo andrà presto stabilizzandosi, con governi dimentichi del passato e pronti, magari per necessità, a stringere nuove collaborazioni con l’Europa. Così come sottovalutare i sommovimenti di altri Paesi arabi. Ma dove si rischia ancor di più con un atteggiamento altalenante e attendista è, ovviamente, il fronte di Tripoli. Al Gheddafi “convertito” all’Occidente si sono fatte negli anni aperture di credito che non contemplavano una sua traumatica uscita di scena. Eppure, dopo pochi giorni dallo scoppio delle insurrezioni, è cominciata una scoordinata corsa dei singoli membri dell’Unione a prendere le distanze dal regime e ad allacciare contatti con l’autoproclamato Consiglio nazionale di transizione. Doverosa la condanna delle uccisioni di civili, poco lucida la scelta che ci ha portato a rendere di fatto impossibile un proseguimento di relazioni con il Colonnello prima che fosse chiaro il suo destino. E che ora impone di fare sì che lasci la Libia e finisca, se possibile, davanti alla Corte penale dell’Aja. Detto in altre parole, l’Europa finora ha osservato e si è dimostrata assai riluttante a fare mosse decise su uno scacchiere cruciale ai suoi confini. La Francia che fino all’ultimo ha flirtato con Ben Ali propone di bombardare i bunker del rais, gli altri grandi del Continente frenano, con l’eccezione forse di Londra. La proposta di coinvolgere Lega Araba e Unione Africana in un tentativo di concertazione per avere la legittimazione Onu alla zona di non volo può essere un passo nella giusta direzione. Ma bisogna accelerare i tempi, prima che Gheddafi riconquisti il controllo sulle principali città e l’intervento si configuri come una tardiva sanzione, non diversa alla fine dall’attacco a Saddam Hussein. Non si può prescindere dalle posizioni americane, va da sé, eppure definire alcune linee comuni, che coniughino in modo accettabile real politik (modulare i flussi migratori e non perdere le forniture di gas e petrolio) con un sostegno a regimi più liberali, benefici per i popoli che governano e lontani da derive fondamentaliste, dovrebbe essere la priorità perché la Ue non precipiti nell’irrilevanza. Non è impresa facile, ma da porre subito in cima all’agenda. Anche per quanto riguarda Italia. Perché non si può nascondere che il nostro Paese abbia molto concesso alla Libia e si trovi ora in uno scomodo guado tra vecchie condiscendenze e nuove intransigenze. Dedicare un po’ di zelo del nostro dibattito pubblico alla politica internazionale non potrebbe che essere salutato con favore. Non lasciamo che l’Europa si macchi ancora di ignavia.
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