martedì 31 maggio 2011
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Le vicende penali di Strauss-Kahn hanno riattivato a livello mondiale un discorso sulla sessualità che sembrava oramai essere divenuto fuori moda. Ma lo hanno riattivato male. Lasciamo da parte (non certo però perché la cosa sia irrilevante) se la vicenda vada qualificata come stupro e quindi come delitto o se vada ricondotta nell’alveo delle pratiche sessuali consenzienti, pertanto giuridicamente lecite: se cioè Strauss-Kahn possa essere ritenuto "penalmente" colpevole. Ciò che sembra comunque assodato è che l’uomo era da tempo, se non da sempre, preda di una vera e propria passione per il "sesso". Come giudicare questa "passione", oggi, in un contesto culturale per il quale la sessualità non è più oggetto di un giudizio etico ma, al più, di quale generica valutazione socio-psicologica? Qui sta il problema. Nel linguaggio corrente (quindi al di fuori del suo significato, per dir così, "tecnico") "sesso" è parola sgradevole e tutto sommato rozza, ma caratterizzata da una potente forza comunicativa: essa induce a vedere la sessualità non come una dimensione propria e profonda dell’essere dell’uomo, bensì come tra le tante modalità del suo fare (da cui l’espressione "fare sesso"). Ridotto in tal modo a una mera dinamica fisiologica, non avrebbe più senso valutare il sesso ricorrendo alla dicotomia "bene/male", ma tutt’al più a quella "normale/patologico". Il libertinismo di Don Giovanni non meriterebbe più quindi deprecazione morale, ma al più una qualche commiserazione quando si dimostri che può essere assimilato ad una forma di dipendenza psico-patologica. Solo quando arrivasse a colorarsi di violenza (stupro, pedofilia, sadismo, ecc.) e desse luogo a "raptus" (ma, si sa, Don Giovanni è seduttore, non stupratore), l’uso del sesso diverrebbe biasimevole e meritevole di repressione penale. Si tratta di un paradigma apparentemente molto coerente e che sembra oggi straordinariamente consolidato: esso scricchiola però da tutte le parti, sia perché è quasi impossibile conciliare l’idea della responsabilità penale con l’irresponsabilità conseguente a una psicopatologia (che merita non pene, ma terapie), sia soprattutto perché ricondurre sempre e comunque la violenza (sia quella sessuale, sia quella non sessuale) ad una psicopatologia significa non voler fare i conti con i "fatti". E i "fatti, insegnava Bobbio, sono "resistenti" e alla lunga mandano in frantumi tutte le ideologie e i loro pregiudizi. Per restare aderenti ai fatti, torniamo a riflettere su di un termine essenziale, ma ampiamente fuori circuito, come "temperanza". Oggi, per temperanza, si intende tutt’al più la moderazione nel mangiare e nel bere: un valore igienico più che etico. Il corretto concetto di temperanza è invece ben più profondo: come già insegnava il pensiero greco classico, ripreso poi dalla morale cristiana, per temperanza si deve intendere la doverosa capacità di controllare pienamente se stessi, di darsi un ordine, una disciplina, una misura, una pace sia fisica che spirituale (ed è per questo che l’infanzia e l’adolescenza, età in cui l’uomo non ha ancora definitivamente completato la "costruzione" di se stesso, sono più facilmente aperte all’intemperanza rispetto all’età adulta). Il paradigma della temperanza è stato scardinato nell’epoca moderna dalla passione per l’eccesso, per l’esasperazione, per l’oltre-misura, per il disordine, per l’avventura, per il moltiplicarsi forsennato di esperienze. Più di ogni altra è stata l’esperienza sessuale, anche per la sua relativamente facile accessibilità, ad essere travolta dall’intemperanza. È così che ogni pratica sessuale, anche la più estrema, giunge ad essere apprezzata e viene comunque ormai ritenuta insindacabile (purché non violenta). Ma la saggezza classica sapeva perfettamente (e siamo noi moderni ad avere, colpevolmente, rimosso questa consapevolezza) che nel desiderio sessuale è sempre presente una pulsione di violenza, il più delle volte sottilmente nascosta, ma comunque operante: una pulsione alla quale solo il riferimento alla temperanza è in grado di dare ordine e di porre un limite. Se lo stupro è penalmente ributtante, umanamente lo è ogni pratica sessuale smodata, anche se non violenta: lo dimostra, se ce ne fosse bisogno, perfino l’aspetto fisico che assumono coloro la cui intemperanza giunge all’estremo e che mostrano, col loro stesso apparire, quanto il corpo possa condizionare lo spirito.
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