sabato 8 maggio 2010
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Trecentosei seggi, ossia venti meno dei necessari per la maggioranza assoluta, ai conservatori; 258 ai laburisti che erano al governo e che patiscono una dura batosta ma non la devastazione; 57 ai liberaldemocratici, che ottengono un risultato oggettivamente notevole, ma di gran lunga inferiore alle enfatiche, e probabilmente manipolate, previsioni dei sondaggisti che pronosticavano per loro addirittura il secondo posto. In questi pochi dati, ai quali si potrebbe aggiungere la ripulsa elettorale di ogni tentazione estremista e sciovinista, si condensa l’esito di un voto, quello inglese, che segna in parte la fine di un’epoca ed esprime una diffusa voglia di cambiamento, ma lo fa quasi a mezza voce. La vittoria dei Tories guidati da David Cameron è infatti netta, ma non del tutto convincente, specialmente se si ricordano l’impopolarità del premier laburista Gordon Brown e il diffuso malumore per la recessione.Ora si preannuncia un Parlamento hung (appeso, bloccato), nel quale nessun partito dispone della maggioranza necessaria a formare un governo realmente «forte e stabile», come promette lo stesso Cameron e soprattutto come sarebbe fondamentale per un Paese in crescenti difficoltà economiche, tenuto sotto tiro non soltanto dalle discusse e discutibili agenzie di rating, ma anche dalla Commissione europea, la quale recentemente ha ricordato che il deficit britannico è il più alto dell’Unione (il 12 per cento del Pil, peggio della derelitta Grecia).L’epoca che finisce (ma in realtà a finire davvero sono soltanto i tredici straordinari anni in cui il Partito laburista ha egemonizzato la politica britannica) lascia il campo ad una nuova che si presenta carica di incertezza politica, e non soltanto politica. Il ben collaudato meccanismo dell’alternanza dei governi fondata sul bipartitismo entra in crisi ma ancora non muore, tanto che con ogni probabilità, dopo un possibile esperimento di governo di minoranza da parte di Gordon Brown, sarà Cameron a sedersi, a Downing Street, sulla poltrona che fu di Tony Blair (oggi defilata ma non del tutto dimenticata comparsa sulla scena politica). Ma Cameron per formare un governo, qualunque ne sia la formula, dovrà venire a patti con le altre formazioni, forse a cominciare da quei liberaldemocratici di Nick Clegg che devono amaramente riflettere sul fatto che la popolarità televisiva e il favore dei sondaggi non corrispondono necessariamente al responso elettorale.Insomma, e contrariamente alle diffuse aspettative della vigilia, sembra che la montagna del cambiamento epocale abbia partorito per il momento soltanto l’avvento di un nuovo premier, il quale già mette le mani avanti invocando una riforma della legge elettorale (attraverso referendum popolare) che scongiuri in futuro il ricorso, così tipico dell’Europa continentale, a compromessi d’ogni sorta per formare coalizioni governative.Comunque vada, crediamo che il Regno Unito continuerà a restare lontano dall’Europa e a coltivare quella special relationship (relazione speciale) con gli Stati Uniti che, a causa della guerra all’Iraq, alla fine ha provocato la caduta di Tony Blair. Ma ci vorrebbe ben altro, mentre politica estera e politica economica non sono mai state tanto interdipendenti (per esempio non si possono inviare e tenere molte truppe all’estero quando si deve tagliare dolorosamente la spesa per il pubblico impiego), per dare nuovo lustro alla declinante sterlina e all’appannato blasone del Regno. E appare difficile che possa essere all’altezza del compito un governo esposto ancor prima di nascere al serio rischio di elezioni anticipate.
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