mercoledì 18 agosto 2010
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Proprio mentre nel cielo sopra il Quirinale tornava a echeggiare la parola impeachment, Francesco Cossiga è morto. E persino così questo politico onesto, questo cattolico curioso, questo intellettuale raffinato e scomodo, questo sardo orgoglioso, questo polemista inesorabile (e a volte impubblicabile) ha reso – certo involontariamente – un ultimo servizio all’Italia. Al Paese amato e sferzato che, per tutta la sua vita, aveva rappresentato ai massimi livelli e contribuito a governare. Ha avuto ogni onore e si è assiso su ogni poltrona, Cossiga. E a ogni carica ha saputo rinunciare, coltivando con poco imitato rigore la dura e semplice disciplina delle dimissioni. Tranne quando si tentò – con l’impeachment, appunto – di dargli ignominiosamente lo sfratto dal Colle più alto della Roma istituzionale, dal Quirinale che aveva trasformato in un visionario balcone proteso su una Seconda Repubblica popolare e post–parlamentare. Una Seconda Repubblica che non è mai nata davvero e che pure vanta un piccolo esercito di padri putativi e di avventati cantori. Un’incompiuta che si va rivelando purtroppo una prosecuzione con altri mezzi (e ben diverse stature politiche) degli usi meno commendevoli e dei più allarmanti abusi della Prima Repubblica.  Ha davvero reso un ultimo servizio all’Italia, Cossiga. A questa Repubblica solennemente malmessa, ma che ci è cara ed è l’unica che abbiamo. Ha costretto un po’ tutti a riflettere (e speriamo che la riflessione appassioni e continui e si approfondisca) sullo strano caso di un capo dello Stato proclamatosi «picconatore» che, però, mai e poi mai piegò le regole costituzionali ai propri desideri o ai desideri di chicchessia e, prima ancora, sulla vicenda umana e politica di un ministro dell’Interno che compì scelte ardue e dolorose, portando sino in fondo il peso della linea della fermezza negli anni di piombo, anche a prezzo dell’assassinio brigatista dell’amico e maestro Aldo Moro. Per questo pure moltissimi di coloro che ebbero, e magari hanno continuato ad avere, con lui profonde e motivate ragioni di dissenso gli hanno, infine, dato atto del suo severo ed esigente senso dello Stato. È difficile – e, forse, oggi più che mai – essere all’altezza di una simile idea alta e grave delle Istituzioni. Ma è necessario. Urgente. Indispensabile.Fuori dal recinto dei suoi doveri istituzionali, ma proprio appena fuori, quasi sull’uscio, era facilissimo “scontrarsi” con il veemente Cossiga. È capitato anche a me, nel mio piccolo, per aver vissuto da cronista parlamentare e da inviato al seguito del presidente della Repubblica (allora lavoravo al “Tempo”) gli ultimi vorticosi mesi del settennato cossighiano e per aver commentato a più riprese (su queste colonne) le concitate fasi della crisi del primo governo Prodi e della nascita del primo governo D’Alema nelle quali tanta parte ebbe l’effervescenza «gollista» del tutt’altro che pensionato senatore a vita. È accaduto, ancora nei primissimi anni 90, con comprensibile clamore, quando l’allora capo dello Stato aprì una vertenza sorprendentemente feroce proprio nei confronti di questa testata, in quel momento diretta da un giornalista del calibro di Lino Rizzi. È successo in passaggi più recenti della vita nazionale e della polemica pubblicistica. Su di essi – per la stima sempre conservata nei confronti dell’uomo, del democratico cristiano e del «cattolico liberale» Cossiga – è meglio oggi sorvolare.A proposito dell’aspetto più umbratile del carattere dell’ex presidente, c’è però un punto che mi ha sempre colpito e che credo meriti di essere sottolineato: Cossiga non chiudeva mai la porta a coloro ai quali aveva accordato la sua stima, li giudicasse, al momento, amici o avversari. Forse, anche per questo sapeva entrare di slancio in polemica con gli uni e con gli altri. In tal senso trovava (o credeva di trovare) nemici lungo la strada, ma non se li “portava dentro”. Credeva in Dio e negli uomini, e sapeva che gli uomini, e le loro idee, possono cambiare. Anche questa, ben prima e assai di più di ogni esaltato «anticonformismo»,  è stata la lezione di un cristiano ostinato e di un fedele e inquieto uomo delle istituzioni. Che abbia pace.
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