domenica 31 ottobre 2010
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Nelle campagne del terrorismo islamico c’è un unico aspetto positivo: a ogni nuovo allarme impariamo qualcosa, su di loro e su di noi. I pacchi esplosivi spediti verso gli Usa dagli Emirati Arabi Uniti e dallo Yemen confermano quanto già si sa: il jihadismo stragista ha dovuto ammainare molte bandiere ma ha tuttora la grande capacità di spostare le proprie basi e inventare nuovi sistemi per tentare di colpire. Dalla distruzione delle ambasciate in Africa ai pacchi spediti contro le sinagoghe di Chicago sono passati pochi anni, ma secoli quanto a strategia e organizzazione. È una qualità che dobbiamo riconoscere al nemico, ammettendo che contro di essa anche il più accurato lavoro d’intelligence non può fare più di tanto. Sarà la lezione dello scampato pericolo, proprio come in questo caso, ad aggiornare le nostre tattiche, a raffinare i nostri sistemi di sicurezza.Ancora più importante, però, sarà meditare sulle nostre reazioni. Inevitabile in primo luogo è chiedersi se i terroristi di al-Qaeda abbiano tentato di colpire alla vigilia del voto americano di medio termine per caso, magari contando su un Paese indaffarato e distratto, o con la precisa volontà di influenzare il voto stesso. I primi sondaggi in arrivo dagli Usa dicono che il presidente Obama non avrà vantaggi dal rinnovato pericolo. Anzi, potrebbe esserne danneggiato se la sua risposta sembrerà esitante o inefficace. L’attenzione degli elettori è concentrata sulle cose di casa, in primo luogo sull’economia: le rilevazioni del Pew Research Center dicono che il 41% dei telespettatori segue le notizie economiche e appena il 31% quelle elettorali, anche se queste ultime occupano da sole quasi il 40% del tempo-video. Solo il 3% degli interpellati, in un altro sondaggio, giudica la guerra in Afghanistan una "priorità nazionale". Può far comodo ad al-Qaeda e ai suoi reclutatori un’America che si sposta a destra e riprende ad agitare il fucile come ai tempi di Bush? Lo scopriremo presto, subito dopo il voto.Intanto, la minaccia dei pacchi bomba ci spinge a constatare che del terrorismo ci eravamo quasi dimenticati, lo avevamo spinto in fondo alla lista delle preoccupazioni. Il che dimostra che le guerre, soprattutto certe guerre, sono il prodotto della sicurezza o della disperazione, sono le imprese dei Paesi troppo convinti della propria forza oppure privi di altre iniziative. Gli Stati Uniti, come in generale l’Occidente industrializzato, sono oggi un Paese ancora ricco e potente ma divorato dalla paura di diventare povero e impotente. In qualche modo paralizzato, certo conscio di non poter ripetere le avventure politico-militari del passato decennio.Il rinnovato allarme sul terrorismo islamico, quindi, si trasforma in un test sulla nostra capacità di reagire a un male vecchio con mezzi nuovi, con più fantasia e meno denaro, con più astuzia e meno grinta. Ci riusciremo? Difficile dirlo. La "guerra al terrore", nelle sue pagine migliori come in quelle peggiori, ha sempre avuto gli Usa come ispiratori e leader. La loro capacità di guida è sempre forte (lo si è visto, per esempio, nell’emergenza in Pakistan dopo le alluvioni) ma non più come un tempo. Ci vorrebbe un’Europa davvero unita, o una Cina davvero inserita nel dibattito politico globale.Ecco, dunque, che il test sulla sicurezza dei voli e degli aeroporti già si trasforma in una prova sulle doti di resistenza degli Usa e sulla capacità delle altre nazioni di colmare il buco eventualmente lasciato da un ridimensionamento del loro ruolo. Un evento che molti spesso auspicano ma che, al dunque, fa tremare un po’ tutti.
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