venerdì 18 giugno 2010
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La decisione di Israele di allentare il blocco della Striscia di Gaza è un piccolo passo nella giusta direzione. La situazione umanitaria in quel minuscolo e sovrappopolato territorio palestinese è infatti da troppo tempo semplicemente catastrofica, soprattutto a causa della chiusura delle sue frontiere. Dopo la sciagurata decisione di fermare con la violenza il tentativo di forzare il blocco navale da parte della controversa "flottiglia della pace", il governo israeliano si è trovato isolato e un gesto conciliatorio è divenuto ineludibile, vista la crescente pressione degli stessi suoi alleati.L’embargo rimane, al momento, ma si allentano le maglie e aumentano i beni che possono essere inviati nella Striscia. Una decisione che certo non cambierà radicalmente la vita di un milione e mezzo di palestinesi – intrappolati fra la crudezza della politica israeliana e il cinismo di Hamas, per cui le sofferenze dei civili sono strumentali alla causa –, ma che viene incontro a quanti sollecitavano un segnale. Un gesto di speranza per il vivere quotidiano degli abitanti di Gaza – come chiede da tempo anche la Chiesa – e nello stesso tempo una mossa politica, per riavviare un processo di pace perdutosi da tempo nel labirinto mediorientale.È per questo che i passi positivi, per quanto piccoli, assumono un significato che va al di là dei loro effetti immediati: perché contribuiscono a fermare quella "geopolitica delle scuse" a cui assistiamo sconfortati da decenni, per colpa della quale nessun attore locale fa una prima mossa perché si attende che sia l’altro ad agire. O perché si pongono continue precondizioni per riconoscere l’avversario e sedersi al tavolo con lui. Appunto una geopolitica regionale tutta al negativo, costruita sui pretesti e sulle mancate aperture da parte dell’altro.E quindi da qui bisogna partire per far capire al governo di Gerusalemme come questa decisione sia solo il primo passo per la fine di un blocco che ha rafforzato gli estremisti e diffuso ancor più l’odio per Israele e per l’Occidente nelle piazze arabe. L’indebolimento della leadership moderata palestinese e la perdita di credibilità del presidente Abu Mazen sono passati anche di qua. Nel contempo, è auspicabile che Hamas non interpreti questa decisione del governo israeliano come un segno di debolezza e non decida nuove prove di forza, sfruttando l’allentamento dei controlli per rafforzare il proprio arsenale. A pagare il prezzo maggiore di una nuova crisi sarebbero infatti ancora una volta i palestinesi inermi.Il problema maggiore per il processo di pace è comunque rappresentato dalle crescenti interferenze dei tatticismi della politica interna sulle decisioni di politica estera. A Gerusalemme, il governo Netanyahu, sbilanciato a destra, è spesso ostaggio del populismo del ministro degli Esteri Avidgor Lieberman, il quale stimola i peggiori luoghi comuni anti-palestinesi per rafforzare il proprio partito, Yisrael Beiteinu. Nel mondo arabo e fra i leader palestinesi il sentimento di sfiducia verso la volontà israeliana di ritirarsi dai Territori occupati copre spesso l’ambiguità di chi – conscio dei sentimenti di profonda e irriducibile ostilità verso lo stato israeliano delle proprie piazze – sceglie per comodità politiche di piccolo cabotaggio.Una variabile che sta acquistando un ruolo crescente nella regione è il protagonismo della Turchia. Una scelta strategica che sembra di lungo periodo e che peserà nel medio periodo sui rapporti con Israele, un tempo molto più amichevoli, ben più del sanguinoso abbordaggio del 31 maggio. Anche perché il mutamento è pure nei rapporti di potere interni, con il tentativo dei partiti islamico-tradizionalisti di ridurre il ruolo delle forze armate turche, bastione della laicità e dei legami con l’Occidente, e di modificarne l’agenda politica.Come si vede, è ancora lunga la strada per una ripresa vera del processo di pace.
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