sabato 4 giugno 2011
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Precipita la situazione in Yemen, degenera quella in Siria. Se il primo scenario sembra essere il peggiore, in realtà è il secondo che presenta i tratti più inquietanti. Potrebbe essere questa l’estrema sintesi della drammatica giornata di ieri in Medio Oriente. Nello Yemen siamo ormai all’aperta guerra civile, con il presidente Ali Abdallah Saleh, al potere da 33 anni, ferito dai colpi di artiglieria che hanno raggiunto il suo palazzo di Sanaa. In Siria la brutalità degli sgherri di Assad, la cui famiglia governa il Paese dal 1971, si fa ogni giorno più raccapricciante, ma il regime non sembra ancora vicino al cedimento. Accomunati da un vento di rivolta sempre più impetuoso, i due Paesi non potrebbero essere più diversi, e proprio questo elemento sembra in grado di dettare i tempi e i modi di evoluzione delle loro crisi. Frutto di una riunificazione avvenuta nel 1990, lo Yemen è povero e ha scarso peso regionale. Al di là della bellezza della sua capitale e delle sue zone desertiche, gode di cattiva fama per i ricorrenti rapimenti di turisti stranieri e per aver dato i natali alla famiglia di Benladen. Di tutti gli Stati della Penisola arabica, è il più fragile e ha sempre avuto rapporti complicati con il vicino saudita, la vera potenza regionale cui sono affidate le residue speranze di trovare una qualche via di uscita alla crisi. La mediazione, affidata formalmente al Consiglio di Cooperazione del Golfo, non si annuncia facile, considerati i ripetuti voltafaccia del presidente yemenita e le complicate trame delle determinati lealtà tribali. Per quanto nessuno dei vicini muoia dalla voglia di farlo, si parla anche di una forza regionale di peacekeeping, per assicurare l’ordine una volta che Saleh fosse allontanato dal potere. Ipotesi non incredibile, con il paradosso che i sauditi e i loro alleati dovrebbero farsi garanti del buon esito di una rivoluzione dopo aver indirettamente contribuito a sedare quella del Bahrein. Inoltre, nessuno dei vari sceiccati, emirati e regni della zona è dotato di istituzioni rappresentative né pensa ad avviare riforme democratiche.Ben diversamente stanno le cose in Siria, che nel Levante è la potenza regionale, sempre più avviluppata al fragile Libano (che rischia di essere travolto dalle convulsioni del prepotente vicino) e campione (almeno a parole) del più intransigente rifiuto arabo nei confronti di Israele. Proprio ieri sarebbero state uccise molte decine di persone nella sola città di Hama, già ridotta a un cumulo di macerie dal padre di Assad, che per stroncare una rivolta sunnita nel 1982 fece una carneficina di 15.000 morti (ma c’è chi dice 25.000). La degenerazione apparentemente più lenta della situazione siriana non deve però alimentare pensieri consolatori. Se qualche residua chance di intervento regionale è pur sempre possibile in Yemen, nulla del genere è ipotizzabile con Damasco. Nessun vicino più potente è in grado di offrire una mediazione o di "forzare" una soluzione. Non Israele, per ovvi motivi, e nemmeno l’Iran, che teme di perdere il solo alleato che ha nella regione (oltre Hezbollah, che però sarebbe seriamente indebolito dal crollo del regime di Assad). Neppure la Turchia, che pure ha interessi molto forti in Siria e aspira a un ruolo crescente in Medio Oriente, ha alcuna realistica opportunità di orientare quanto avviene ai suoi confini meridionali, per quanto sia preoccupata che una nuova minoranza curda (dopo quella irachena) possa acquistare "eccessiva" autonomia e visibilità.Quella dell’inasprimento progressivo ma rapido delle sanzioni da parte della comunità internazionale resta la sola strada praticabile, con tutte le difficoltà ben note: dalle resistenze cinesi e russe alle preoccupazioni arabe di fare un regalo a Israele. Una via impervia, seppure priva di alternative, a meno di continuare a girare la testa dall’altra parte. Nella speranza di preservare l’unità del Paese, che potrebbe venire meno con la fine del regime, se questo dovesse crollare in un bagno di sangue.
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