giovedì 11 dicembre 2014
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Un altro grido d’allarme. L’ennesimo. È stato lanciato due giorni fa durante la conferenza stampa svoltasi in Senato, a Roma, di cui 'Avvenire' ha dato ampia e puntuale informazione. Quasi tutte le sigle del mondo dell’editoria hanno fatto sentire la loro voce in maniera forte, perentoria, in una sorta di ultima chiamata. O si agisce subito sui fondi in distribuzione in questi giorni, relativi al 2013 e nelle ultime settimane ridotti a un quarto rispetto alla dotazione dell’anno precedente, o per numerose testate giornalistiche 'di idee' e 'del territorio' i tempi si faranno davvero bui.  Questa drastica riduzione pone a rischio non solo posti di lavoro, ma la sopravvivenza di 'fogli' che da lungo e anche lunghissimo tempo, senza fini di lucro, scrivono la storia di questo Paese e spesso sono tutt’uno con le realtà di riferimento. Andiamo per gradi. Tentiamo, ancora una volta, un ragionare serio e composto. Ci proviamo per amore di verità. Per andare al cuore della questione, così complicata e così semplice al tempo stesso.  Ammettiamolo: l’opinione pubblica non vede con favore il sostegno pubblico ai giornali. Accomuna questo intervento statale al finanziamento ai partiti. In questa riflessione epidermica che avviene sovente solo sulla base di titoli spesso urlati, si assimila tutto il mondo della carta stampata in un’unica accozzaglia indistinta. Non si riconosce più chi svolge un servizio all’informazione da chi invece, come accaduto purtroppo in un passato anche recente, cerca di sfruttare risorse dei cittadini per fini personali quando non addirittura truffaldini.  Torniamo alla ratio. Una norma di legge ha sempre una ragione su cui poggiare. Porta con sé un principio ispiratore. È avvenuto così anche per quelle che stanno alla base dei fondi all’editoria, approntati per la prima volta nel 1981 e riformati nel 1990. Motivi validissimi, allora, come lo sono oggi: da un lato sostenere e incoraggiare la democrazia informativa e dall’altro mettere un equo supporto al mercato pubblicitario sfrenatamente sbilanciato verso i grandi network televisivi. A più di un lettore potrebbero non bastare queste motivazioni. Da molte parti e per qualsiasi settore economico si invoca il 'mercato' come buon regolatore per decidere chi merita sopravvivenza e chi no. La legge della domanda e dell’offerta è sufficiente, viene enunciato anche in sedi autorevoli, per assicurare spazio anche a chi ambisce alla presenza nell’agorà massmediale. Se un’impresa editoriale non ci riesce, significa che deve lasciare campo e spazio ai concorrenti. Non avviene così, contrariamente a quanto si pensa, in quasi nessun Paese democratico al mondo. L’editoria è sostenuta ovunque, in modi e con mezzi assai diversi.  Viene favorita perché rappresenta un valore per una società moderna. Il pluralismo nell’informazione non può essere considerato un accessorio o, peggio, un orpello o, addirittura, un lusso ingiustificabile in periodi di crisi economica. La presenza di più voci, diverse e in controtendenza rispetto a una platea nazionale e locale sovente omologata, rappresenta un elemento indispensabile e irrinunciabile anche in periodi di spending rewiew.  Altrimenti si rischia il pensiero unico. Bisogna ammetterlo, bisogna rendersene conto. Minori risorse disponibili impongono maggiore responsabilità.  Altre volte ci siamo appellati al rigore e all’equità. Ci ripetiamo: occorre incoraggiare chi merita, chi dà voce a quella parte del Paese che troppo spesso non emerge, ma è viva e vitale, pulsa nel cuore delle nostre città e delle nostre periferie. I tagli lineari e indiscriminati non servono. Anzi, penalizzano i più virtuosi, a danno dell’intera collettività. I giornali, da sempre e per definizione, favoriscono i rapporti delle comunità locali e il dialogo schietto e serrato tra opinioni diverse. I bilanci pubblici non si realizzano solo in maniera ragionieristica, ma anche con apporto di idee fra più attori liberi di esprimersi. In questa ottica, con questo sguardo pieno di realismo, si capisce bene perché i contributi all’editoria non rappresentino un 'regalo di Stato', un favore a una casta di privilegiati. Sono un sostegno, certo perfettibile ma necessario, per alimentare quella polifonia di voci alla quale, ne siamo convinti, nessuno vuole rinunciare.  
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