Il Papa ha ragione: sono i poveri a evangelizzarci
mercoledì 23 dicembre 2020

Quante volte, nell’ultimo mese, è risuonata nei diversi ambienti la parola Natale? Dalla politica, in relazione alle misure anti-Covid, alla televisione negli infiniti dibattiti sul difficile equilibrio tra tutela della salute pubblica e salvaguardia dell’economia, fino alle discussioni tra amici o in famiglia, quel vocabolo sarà stato adoperato miliardi di volte.

Ma a ben pensarci: l’abbiamo usato in rapporto al suo significato autentico? O l’abbiamo più o meno inconsapevolmente derubricato a sinonimo di 'periodo dell’anno' con annessi e connessi di luci, cibarie e regali? Nei giorni scorsi, ad esempio, più volte mi è capitato di augurare 'buon Natale' a conoscenti e persone incontrate occasionalmente. Praticamente mai mi è stato risposto con un altro 'buon Natale'. La formula di rito ormai entrata nell’uso corrente è diventata 'buone Feste (o festività)' o un ancor più neutro 'buone vacanze'. Il Natale che fa la parte del leone quando si parla di giro d’affari sparisce invece in relazione all’augurio che richiama la sua stessa ragion d’essere.

Qualche anno fa un vescovo raccontava che durante un viaggio negli Stati Uniti proprio nel periodo natalizio, chiese alla commessa di un negozio perché al suo 'Merry Christmas' avesse risposto con un generico 'happy holidays'. E si sentì rispondere: «Non lo possiamo più dire». Il politicamente corretto imperante. O meglio, un malinteso senso del rispetto di altri credi religiosi (e dell’agnosticismo) per cui non si può più proclamare la verità sul Natale. Ma due giorni fa, ecco la sorpresa. Incontro all’angolo della strada dove abito un ragazzo di colore che mi tende la mano. Mi fermo a dargli una moneta. E lui non mi dice «grazie», ma semplicemente «buon Natale».

Lo guardo sorpreso. Ha tratti somatici che denotano una provenienza africana, potrebbe essere anche musulmano o animista per quanto ne so, ma ha pronunciato quella parola e quell’augurio che tanti di noi – per un falso senso del rispetto – non vogliono, anzi non osano più dire. È stato un momento carico di emozione, una sorta di catarsi, uno di quegli attimi in cui tutte le incrostazioni di anni e anni di consumismo natalizio, di discutibili 'pudori', di mode imposte dai cosiddetti benpensanti si dissolvono all’istante. «Buon Natale », la parola fiorita sulle labbra che meno ti aspetti ritrova il suo senso, perché alla Parola fatta carne fa finalmente riferimento. E allora viene spontaneo pensare al magistero del Papa e a una delle sue intuizioni più felici e feconde: «I poveri ci evangelizzano».

Cristo nasce dove meno te lo aspetti. Che sia la mangiatoia di Betlemme, sperduta città ai confini dell’impero romano, o la bocca di uno straniero mendicante, mentre ormai persino nell’'albergo' dei nostri voti augurali politically correct non c’è posto per Lui. E invece nell’anno del Covid dovremmo tornare più che mai ad augurarcelo «buon Natale». Perché in fondo quella parola, Natale, anche al netto di ogni valenza salvifica ultraterrena, parla di un amore che ha liberato gli schiavi, ha dato speranza e riscatto ai poveri, ci ha resi uguali nella dignità, ha salvato donne dalla violenza maschile, distinto i piani tra Dio e Cesare, aprendo infine le braccia in un atto di donazione totale di sé, che resta paradigma per ogni nostra relazione con l’altro. In sostanza ha cambiato il mondo e la storia, costruendo il patrimonio comune dell’umano. Possiamo rinunciare a un augurio così, proprio mentre il mondo arranca nella pandemia ed anela a una rinascita che ci faccia sentire «fratelli tutti»?

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