mercoledì 10 settembre 2014
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​Se c’è una parola che manca, o che rischia di essere espulsa e scavalcata, nella tragica vicenda del ragazzo di Napoli rimasto ucciso, in queste ore in cui il dolore per una vita stroncata e la rabbia prendono striature di rivolta collettiva, e da un’altra parte si tenta di addossare la tragedia a un costume di devianza ribelle che sfida l’ordine legale, è la parola "giustizia".Giustizia è ordine, ma giustizia è anche proporzione nel contenere il disordine. In tre sulla moto senza casco violando il posto di blocco è disordine, ma la morte non vi ha paragone. E se il dolore e la rabbia producono ancora un nuovo disordine da contenere, e si pensa di placarle a forza, le sventure si possono moltiplicare. Non è il furore che decide il giusto, come non lo è la retorica della solidarietà a prscindere con le "forze dell’ordine". Questo mettere in campo i massimi sistemi e argomentare sulla riottosità alle regole da parte della gente del luogo, che meriterebbe qualche buon giro di vite, o all’opposto sulla prepotenza brutale di alcuni episodi di "forza pubblica", come stigma d’un sistema socialmente disintegrato, non produce soluzione.La prima via della giustizia è la verità. Non può esser vero che tutti quanti protestano per un ragazzo ucciso da un’arma portata in nome della legge, chi piangendo e chi urlando, sono genericamente una propaggine della camorra che ha in odio gli sbirri e la loro divisa, anche se vi può trovar guazzo qualche facinoroso. Non può esser vero che tutti gli uomini che portano un’arma per incarico di protezione sociale se ne fanno una protesi di potenza, anche se fra loro può capitare qualche sceriffo dalla testa calda o sventata. Dentro le cornici delle riflessioni sociologiche, non nuove purtroppo (e non solo italiane, si pensi a quanto accaduto in America per la cattura e morte di un uomo di pelle nera), resta il nucleo di una cronaca che va ricostruita attimo per attimo, accertata secondo verità, e poi giudicata secondo giustizia. Senza fughe in avanti, senza preconcetti, ma anche senza arroccamenti. Nel nostro sistema non ci sono presunti colpevoli, solo presunti innocenti fino a prova contraria; ma nessuno è corpo vile e nessuno è intoccabile. Il dolore in piazza può capirsi, le violenze in piazza sono un errore che gioca per la disperazione. Dicono bene i genitori del ragazzo morto: «Nessuna violenza in nome di nostro figlio, noi chiediamo soltanto giustizia. Chi usa la violenza in suo nome non sa quanto danno fa a lui e alla nostra famiglia».Giustizia è dunque la parola che ora chiede subentro. Ad essa battono sia le istanze del dolore e le istanze delle garanzie dell’accusato, e il cammino potrà essere impervio, se affiorano già versioni diverse, testimonianze diverse. Che tutti rammentino qual è l’importanza del giuramento, nelle testimonianze, siano dette in borghese o siano dette in divisa, e come questa importanza stia scritta non solo nella nostra legge umana, ma in una delle Dieci Parole. E fuori dall’aula, nelle piazze appunto e nei nostri discorsi, in mezzo a pensieri dubbiosi o a saccenti balbettii, noi frattanto eviteremo di fare di tutta l’erba un fascio, perché il guasto di uno, se c’è stato, non è fatalmente il guasto dell’istituzione. Ma non chiuderemo gli occhi a negarne in anticipo la possibile realtà, e chiederne rimedio "in radice" alla stessa istituzione, oltre che ai tribunali. Ora è solo la giustizia che può sciogliere l’ostilità emotiva vista in piazza, riconciliare il senso della legge col bisogno di protezione e non con la relazione di forza.
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