lunedì 5 gennaio 2015
Con quale mezzo salverete il mondo e quale via normale gli avete saputo trovare, voi uomini di scienza, fautori dell’industria, delle assicurazioni, del salario e del resto? (Luigino Bruni)
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Mentre soffriamo per una crisi che sembra (ed è) troppo lunga, per coltivare una speranza non vana dobbiamo riuscire a vedere il vivace pullulare di nuova vita, di imprese, di lavoro, di innovazioni nel sottobosco della nostra economia. Perché c’è realmente. La qualità della nuova fase del nostro capitalismo dipenderà però da quale economia sarà capace oggi di "attrarre", assorbire e valorizzare tutta l’energia giovane, intellettuale e tecnologica che si sta sprigionando dentro e fuori "la tela" (web). Ad oggi, il capitalismo finanziario e globalizzato sembra essere quello di gran lunga più attrezzato a portare dalla sua parte la componente più creativa della nostra società. Per i potenti mezzi finanziari di cui dispone, certamente, ma anche per il grande fascino che i suoi simboli esercitano sui giovani migliori. È stata la sua capacità di inglobare e riciclare la componente più creativa di ogni generazione che ha decretato, fino ad oggi, il grande successo del capitalismo nel Novecento – come ci mostrano Eve Chiapello e Luc Boltanski nel loro Il nuovo spirito del capitalismo, da poco pubblicato anche in edizione italiana (Mimesis).
Dobbiamo prendere più coscienza che la nostra economia è composta da almeno quattro economie diverse (anche se chi disegna il fisco, gli incentivi, le politiche industriali continua a pensare che il capitalismo sia uno solo). La prima, che possiamo ancora chiamare "capitalismo", è quella composta da imprese, banche, assicurazioni, fondi d’investimento, che nascono soltanto per cogliere opportunità di profitto o, sempre più frequentemente, di rendita. Queste sono quasi sempre grandi organizzazioni con proprietari molto frazionati, gestiti da manager pagati oltre qualsiasi buon senso, che operano a livello globale e scelgono i luoghi dove porre la sede fiscale e le unità produttive al solo scopo di minimizzare la tassazione e massimizzare i guadagni – e ci riescono perché hanno sufficiente denaro per consulenti fiscali eccellenti, autentici "santi" dei paradisi fiscali e sindacali. Questo capitalismo crea efficienti organizzazioni filantropiche, sponsorizza con dosi omeopatiche dei profitti anche la ricerca scientifica e il sociale; ma il suo scopo, l’unico vero scopo che lo muove è fare più soldi possibili nel minor tempo. Le multinazionali dell’azzardo sono il tipo puro di questo capitalismo, che ormai comprende molte imprese comprate da fondi di private equity, che in questi anni di grave carestia di finanziamenti e di liquidità stanno acquisendo, a ottimi prezzi, migliaia di imprese in difficoltà. Le "salvano", a volte, finanziariamente, ma spesso non salvano il lavoro, e quasi sempre il progetto del fondatore perde l’anima, anche quando restano, a scopo di lucro, l’antico nome e i vecchi marchi. Un processo che si sta compiendo su vasta scala, che non di rado si intreccia con l’economia illegale in cerca delle stesse imprese in crisi di capitali. Un fenomeno di incorporazione vasto e profondo che sta snaturando molta parte del nostro "made in Italy", e che accade sotto la disattenzione generale. I capitali che si attraggono nei tempi delle crisi non sono (quasi) mai buoni. «Quante sono le imprese del "primo  capitalismo" in Italia?», chiesi qualche mese fa a un mio amico gran conoscitore dell’economia italiana. «Il 90% delle grandi imprese anonime non legate a una famiglia proprietaria», mi rispose.
C’è, poi, una seconda economia, fatta di imprese che solo nella forma assomigliano a quelle del primo capitalismo. Ce ne accorgiamo appena mettiamo piede nei loro locali e parliamo con imprenditori, manager e lavoratori. Altra è la cultura che le muove, più profondo e ampio il loro orizzonte. È questo il "capitalismo" delle imprese famigliari. Dietro al progetto d’impresa qui c’è la presenza di una persona concreta e di una famiglia, che segna una prima differenza radicale. Il capitalismo famigliare non è di per sé garanzia di correttezza, di buona gestione e di eticità (lo vediamo tutti i giorni). La presenza di una famiglia alla guida di un’impresa è però spesso garanzia che i proprietari sono interessati a durare nel tempo e non a massimizzare profitti di brevissimo periodo. Senza l’asse del tempo e l’orizzonte del futuro ben visibili in azienda, il lavoro non è amico dei capitali e dei "padroni". Questa seconda economia è ancora il muro maestro del nostro sistema economico e civile.C’è poi una terza economia, quella che qualcuno chiama appunto "Terzo Settore". È quella di molta economia cooperativa e sociale, delle organizzazioni senza scopo di lucro, della finanza territoriale ed etica, delle imprese a "movente ideale", e da tutto quel brulicare di attività economiche germinate dal cuore della comunità cristiana e della società civile organizzata. È l’economia che fiorisce da ideali più grandi dell’economia. Nei tempi della crisi questa economia terza sta continuando a crescere, ma sta anche vivendo una crisi epocale, che dipende soprattutto dall’esaurimento dell’humus etico del suo terreno. La seconda e la terza economia sono, infatti, quelle che più stanno soffrendo per il deterioramento dei capitali di virtù civili che hanno fatto fiorire quelle imprese nei decenni passati. Il primo capitalismo, invece, cresce molto bene nei terreni impoveriti di humus civile – basti pensare, ancora una volta, alle multinazionali dell’azzardo che proliferano nei deserti delle istituzioni e delle famiglie.
Ma c’è anche una quarta economia (e ci fermiamo qui, anche se potremmo continuare con l’economia pubblica, con quella criminale, con quella sommersa…). Sta creando lavoro e sta innovando nel campo della cosiddetta economia della condivisione (sharing economy), che cerca i finanziamenti per le nuove imprese non nei circuiti tradizionali ma sulla rete (crowd-funding), e che cresce a ritmi esponenziali. È il lavoro nascente dal variegato mondo del consumo critico, da molta agricoltura biologica di ultima generazione, dove l’imprenditore agricolo è sempre più spesso una donna giovane, laureata, che parla quattro lingue, che divide il suo tempo tra la cura della sua azienda e viaggi internazionali. Si trovano qui molti dei nuovi lavori che fioriscono attorno alla cura dei beni culturali, dall’arte, dalla musica, o dagli antichi mulini ad acqua restaurati per produrre energia, lavoro e sovranità energetica. E da tanta bellezza, una bellezza che ci può davvero salvare. È questa un’altra economia non ovvia, fatta da attività molto diverse tra di loro ma che hanno il loro comun denominatore in una idea di economia tendenzialmente collaborativa, dove il lavoro e la ricchezza non nascono primariamente dalla concorrenza, ma dalla cooperazione e dalla ricerca del mutuo vantaggio. Un’economia ad alta intensità di giovani, non pochi dei quali immigrati, dove la ricerca del massimo profitto non è il primo movente, perché le priorità sono la sostenibilità ambientale, la dimensione estetica, il gusto della creatività collettiva, la gioia di vedere territori malati e avvelenati rifiorire, inventare Apps (applicazioni) che gestiscano, e non è un esempio casuale, il "fresco" in scadenza dei supermercati trasformando così scarti in testata d’angolo delle case di molti poveri. Una nuova economia dove gratuità e (un certo) mercato convivono e crescono assieme.
Il capitalismo finanziario-speculativo sta entrando pesantemente non solo nella seconda economia delle imprese famigliari, ma, con i suoi potenti mezzi e con un’ottima retorica sta occupando anche il Terzo Settore. La sola possibilità affinché queste economie ancora diverse possano salvarsi e crescere, è dar vita a una grande alleanza con la quarta economia giovane e creativa, che si muove in nuovi "ambienti", parla altri "linguaggi", pensa, agisce e stampa in tre dimensioni.Le economie diverse da quella del primo capitalismo oggi devono riuscire a portare la quarta economia sul loro terreno. E nel frattempo agire anche sulle aree liminali con il primo capitalismo, nelle zone meticce di confine. Entro certo limiti, variabili e mobili in ogni epoca, anche il primo capitalismo può produrre buoni frutti. Ogni epoca lo ha sperimentato. È quando, come oggi, che esonda dai suoi argini e inonda case e campi che quel primo capitalismo diventa nemico dell’economia, del lavoro, del bene comune. Sono gli incontri inattesi e improbabili quelli più generativi. È la biodiversità, in tutte le sue forme naturali e civili, che ci nutre e ci fa tutti ricchi.
Per vincere questa sfida che ad oggi sembra impossibile, è essenziale anche una svolta simbolica, linguistica e comunicativa. L’economia civile (la seconda e la terza economia) non deve più ricorrere ai soli vocabolari dell’etica, delle virtù, dell’altruismo, del dono, della solidarietà. Occorre utilizzare il registro semantico della condivisione, dell’eccellenza, della creatività da applicare a obiettivi più grandi dei soli profitti. È chiedendo cose difficili e presentando sfide impegnative che si riescono ad attrarre le persone eccellenti, soprattutto quando sono giovani. Il mondo dell’economia civile non attrae ancora abbastanza giovani creativi e innovativi perché non è stato capace di rinnovare, adeguatamente, il proprio codice simbolico, di tradurre le sue grandi parole (gratuità, fraternità, bene comune) in altre parole e nuovi segni capaci di entusiasmare le persone migliori nelle fasi migliori della loro vita, e trasformare poi l’entusiasmo in progetti lavorativi e di vita. Siamo ancora in tempo, almeno per provarci.l.bruni@lumsa.it
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