martedì 20 aprile 2010
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Uno degli otto che a Malta hanno incon­trato Benedetto XVI e faccia a faccia gli hanno raccontato la loro storia di bambini violati ha detto che il Papa ha pianto, nell’a­scoltare. Segreto e riservatissimo l’incontro, nessuna telecamera si è allungata a cogliere l’istante in cui la compassione, il cum - pa­tere, soffrire insieme, traboccava sul viso di Benedetto XVI. Lo ha testimoniato solo, me­ravigliato, un visitatore: «ll Papa ha pianto con me». Piangere, e soprattutto davanti ad altri uo­mini, non è abitudine dei grandi della Terra. Se mai succede, lo fanno da soli, perché nes­suno veda ciò che comunemente è inteso co­me stigma di confusione e debolezza. «Ver­gogna », e senso di «tradimento» sono le e­spressioni che lo stesso Benedetto ha usato nella Lettera ai cattolici d’Irlanda. Però non c’è, in quella sofferenza trapelata a Malta, so­lo il dolore del male, né solo senso di sconfitta. In volo verso l’isola dove Pao­lo fece naufragio, il Papa ha detto ai giornalisti: «Pen­so che il motivo del naufragio parli per noi. Dal naufragio, per Malta è nata la fortuna di avere la fede. Così anche noi possiamo pen­sare che i naufragi della vita possono fare il progetto di Dio e possono essere utili per nuovi inizi nella nostra vita». Singolare, straordinaria cristiana lettura di ciò che, normalmente, gli uomini chia­mano semplicemente disgrazia, o colpa, ma in ogni caso identificano in un pu­ro male, come il rivoltarsi di un avverso de­stino. I marinai della nave di Paolo, in balia del Mediterraneo, alla deriva in un orizzonte sen­za approdi, maledivano probabilmente il giorno in cui erano partiti – il giorno in cui un Caso maligno li aveva arruolati in quella im­presa. Paolo invece, lo ha ricordato il Papa, e­ra certo: «Ci dovremo imbattere in un’isola». Spezzata la rotta per Roma, pure non dubi­tava che anche quel naufragio fosse disegno di Dio. Il fondo della sventura, la nave sfa­sciata dalle onda e l’equipaggio miserabil­mente approdato sugli scogli: eppure Paolo era convinto che non fosse la fine, ma un al­tro inizio. (Non è quasi mai così, fra gli uomi­ni. Di fronte a una dura sconfitta molti si i­steriliscono nella rabbia. I più si rassegnano, amari. Qualcuno si ribella fino a voler mori­re. Non è cosa del mondo, questo modo di guardare a un naufragio: come al germoglia­re di un seme selvatico, non seminato, e che tuttavia spunta in un giardino). Già almeno una volta Benedetto XVI ha usa­to questa espressione, naufragio. «Senza un morire – ha scritto nel 'Gesù di Nazaret' – senza il naufragio di ciò che è solo nostro, non c’è comunione con Dio, non c’è redenzione». Dicendoci che il nostro progetto, anche il mi­gliore, non è necessariamente quello di Dio, che strappò le vele alla nave di Paolo, a Mal­ta. Dicendo che il fallimento accettato nella conversione può essere fertile di vita nuova. Che non ci salviamo da noi, ma veniamo sal­vati da Cristo. Che sguardo 'altro', e che altra prospettiva, mentre ancora i titoli dei giornali stanano e inseguono accaniti vicende di preti colpevo­li – quasi soddisfatti che anche gli uomini di Dio siano a volte miserabili come gli altri. «Il Papa ha pianto», ha detto un ex bambino vio­lato a Malta. Lo ha detto meravigliato e com­mosso; perché ha visto in faccia al Papa vero dolore. Eppure, insieme, una assoluta, ferrea certezza di un bene, tuttavia, perfino di quel male più grande.
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