Quell'agosto del 1991. L'arrivo (irregolare) degli albanesi e la luce condivisa
sabato 7 agosto 2021

Caro direttore,
l’8 agosto 1991, trent’anni fa, la nave Vlora approdava a Bari con un carico di molte migliaia di albanesi in fuga da una terra di privazioni e in cerca di una vita migliore. Ho vissuto di riflesso l’arrivo dell’ondata di giovani albanesi come parroco di un piccolo villaggio della provincia di Siena e, come dappertutto, il primo impatto fu difficile, del tipo «Mamma, li turchi!». Ero un giovane sacerdote di 26 anni e qualche volta mi sentivo solo come il prete del film “La messa è finita” di Nanni Moretti. L’arrivo massiccio di giovani albanesi mi costrinse a un brusco cambiamento. Come diceva don Oreste Benzi: «I poveri ci convertono». Così fu. La casa parrocchiale si affollò sempre più di giovani che avevano bisogno soprattutto di un alloggio e di documenti. Per il lavoro spesso arrivavano con il problema già risolto, perché erano molto richiesti. Poi ci furono da fare le pratiche per i ricongiungimenti, quindi le cosiddette “sanatorie” del 1992, 1998, 2002 e un manipolo di giovani volontari si unirono nella Missione Migranti, con esperienze anche molto intense. Conobbi le mogli di quei ragazzi: arrivate spaesate, timide, alcune un po’ impaurite da una cultura molto diversa e non sempre accogliente. E arrivarono anche i matrimoni misti, italo-albanesi. Gli albanesi non solo si sono ben integrati in Italia, ma sono anche uno dei popoli più amici degli italiani. Scrivo qui di seguito, col suo consenso, le parole che una bambina di quella seconda ondata mi ha scritto poco tempo fa. «Caro don Domenico, non so se lo ricorda ma, ventitré anni fa, io e la mia famiglia ci spostammo dal campo profughi in una casa vuota, senza letti e senza nulla. Ricordo ancora quella sera invernale in cui lei venne e portò letti, coperte e cibo, insieme ai Carabinieri i quali a loro volta portarono candele e lampade a gas per permetterci di studiare. Ebbene, io e mio fratello abbiamo studiato davvero. Questa è una lettera di gratitudine. Oggi sono laureata e sono diventata avvocato grazie anche al contributo di persone come lei...».
don Domenico Poeta, Siena

Tante storie umane sono intessute di fatica e segnate anche da iniziale sospetto. Ma in ognuna, sempre, c’è luce, almeno una luce. Che può allargarsi e riempire tutta una vita, proprio come il sostegno fraterno e la luce delle buone e calde cose e delle lampade che lei, prete, e i nostri Carabinieri portarono a quelle famiglie di "irregolari" albanesi, arrivati in Italia da profughi (qualcuno, oggi come ieri, alzerebbe il sopracciglio e intimerebbe, con dispetto, di chiamarli “migranti economici”). Teniamoci stretta questa luce, per condividerla ancora. Teniamoci cara la santa saggezza di don Benzi, perché è proprio vero che «i poveri ci convertono». Mi è stato insegnato, e vedo, e non dimentico che se cambiamo le nostre storie, che non sono mai già tutte scritte, poco a poco capiremo e cambieremo anche la storia.


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI