domenica 27 maggio 2012
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Come gufi nella notte, per una volta artefici di riconciliazione piuttosto che uomini di malaugurio. La notte per anni è stata loro alleata nello sfidare la legge, deturpare l’umano, complicare la speranza. Stavolta la notte diverrà loro alleata perché, in fin dei conti, è di notte che l’alba s’appresta al risveglio. Un gruppo di detenuti del carcere di massima sicurezza di Padova stanotte vestirà i panni del pellegrino: nudi di fronte al mondo e avvolti in un anonimato che li mette alla pari con tutti gli altri. Il termine peregrinus significa straniero, foresto, colui che non sta a casa propria. È esattamente la loro identità: durante la permanenza dietro le sbarre la città è diventata per loro foresta e loro foresti per la città. L’hanno tradita e lei li ha dimenticati relegandoli in periferia, segregati fuori dalle sue mura come ben s’addice ai malfattori.A Padova però abita il Santo «senza nome», quell’Antonio che passando anonimo tra la gente conobbe il fascino dell’effimero e s’impegnò per la pace e la riconciliazione tra le genti. Loro stanotte chiederanno aiuto ad Antonio: ripercorreranno assieme a una folla di pellegrini l’ultimo tratto di strada solcato dal frate in punto di morte: il bandito di vecchia data che abbandona la cella non per evadere dalla sua storia ma per trovare una rigenerazione spirituale a una vita costellata di ferite inferte e subite. Loro hanno rubato la speranza e la galera ha rubato loro le parole, inasprito i sentimenti, scolorito l’alfabeto: per questo il loro pellegrinaggio sarà una lunga preghiera fatta semplicemente col corpo, il corpo come veicolo dell’anima per scendere dentro se stessi e accendere la luce. Per anni hanno arredato la cella col grosso rischio di scambiarla per il mondo: troppi ci riescono ogni giorno. Poi Qualcuno ha aperto loro la finestra: da quell’incontro col Risorto non hanno più accettato di barattare la luce dell’abat-jour con quella del sole. E qualcuno s’è rimesso in piedi. Il camminare racconta la meraviglia e lo spavento, l’ignoto e il conosciuto, la forza e la spossatezza. Camminare a piedi è avvertire la coscienza della propria fragilità, un invito alla prudenza e alla disponibilità verso gli altri. È riscoprire la nostalgia e la lentezza in un mondo dominato dalla fretta. Per loro stavolta camminare avrà il sapore di un ritorno in città dopo anni di esilio, un riaffacciarsi alla vita, compenetrarsi nella natura e ritrovare il contatto con l’universo. In compagnia di Antonio da Padova, il pellegrino di Dio che dopo aver solcato le terre dal Portogallo al Marocco, dalla Sicilia alla Romagna, dalla Francia Meridionale al Veneto passando per la Lombardia è diventato un figlio del quale Padova è divenuta gelosa custode nel mondo. Nell’animo del pellegrino spesso s’annidano le grandi rivoluzioni: Francesco d’Assisi, Domenico di Guzman, Antonio da Padova sono semplicemente i volti noti di un’umanità e di una Chiesa rivoluzionaria. Perché sono gli uomini che si guardano dentro, non fuori, a scombussolare il mondo: uomini che hanno capito che ogni passo in avanti dev’essere preceduto da un passo all’interno, per non trasformarsi in un passo all’indietro come insegna la mistica. Un gruppo sparuto di detenuti che cammina, a nome di tutti i detenuti, fianco a fianco con la gente comune sulle orme di Antonio. C’è sempre un gruppo in rappresentanza di tutti: all’uscita dall’Egitto come all’ingresso della Terra Promessa, sul Golgota come sul Tabor, a Genesaret come nel cenacolo. Qualcuno c’è sempre a nome di tutti per poi cantare ovunque «quella luce e quell’Amor che move il sole e le altre stelle». E che riorganizza la speranza.
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