Definire la tortura per non vederla più
mercoledì 1 novembre 2017

Bolzaneto: un nome che, associato ai fatti di Genova del luglio 2001, evoca ricordi pesantissimi per la nostra coscienza civile. È necessario ripeterlo e rifletterci su perché è ritornato in primo piano grazie a un paio di sentenze depositate giovedì, con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, sulla base di dati di fatto inoppugnabili, ha esteso agli atti compiuti in quella caserma la qualifica di tortura che un anno fa aveva già bollato le violenze perpetrate nella Scuola Diaz.

Identità di conclusioni, dunque, il che non deve certo indurre a minimizzare la portata di queste ulteriori pronunce, quasi che il 'déjà vu' ne suggerisse la rapida archiviazione in qualche angolo riposto della memoria oscurando l’intrinseca gravità degli accadimenti: persone, almeno in quei momenti, inermi – dice Corte, all’esito di una dettagliata motivazione – sono state «trattate come oggetti nelle mani dei pubblici poteri» e costrette a vivere, «per tutta la durata della loro detenzione, in un luogo di 'non-diritto' in cui le garanzie più elementari erano state sospese».

Né può valere, per stendere un velo d’indulgenza, la consapevolezza dei crimini ancora più gravi contro l’umanità che ogni giorno, in tante parti del mondo, vengono commessi, da servitori di poteri brutali, statali e non, o da 'ribelli' di vario genere. Non meno amara, d’altronde, la lettura di una terza sentenza – coeva a quelle sui fatti 'della Bolzaneto'– che a sua volta ha condannato il nostro Paese per torture inflitte ad Asti nel dicembre 2004 contro due persone detenute: vicenda, certo, più circoscritta e dai risvolti meno clamorosi, ma non meno allarmante proprio perché, almeno apparentemente, riportabile a un contesto di minore eccezionalità.

Forse, è però utile soffermarsi anche sul 'dopo', cioè su quel che è accaduto posteriormente alle une e alle altre torture: penalmente assolti, gli agenti della polizia penitenziaria astigiana; beneficiari di prescrizione o di altri colpi di spugna, gli imputati delle violenze consumate nella caserma ligure; e lapidariamente sconcertata e sconcertante una constatazione: «nessuno ha passato un sol giorno in prigione per i (mal)trattamenti inflitti». Suona poi severo un monito che la Corte si sente costretta a ribadire, avvertendolo inascoltato: «In ogni caso (…) quando sono agenti dello Stato ad essere incolpati di reati che implicano maltrattamenti, è necessario che essi siano sospesi dalle loro funzioni durante l’istruttoria o il processo e che ne siano rimossi in caso di condanna» (naturalmente, si presuppone che si tratti, non di una mera denuncia, magari calunniosa o comunque palesemente infondata, ma di effettivi indizi a carico di chi agisce in nome dello Stato democratico di diritto).

Ma soprattutto pesa come un macigno un altro rilievo: circa i fatti di Genova, 'determinante', per far guadagnare a parecchi colpevoli l’impunità, è stata una «deplorevole mancanza di cooperazione della polizia con le autorità giudiziarie incaricate delle indagini». Nell’insieme, ad essere evidenziata dalla Corte quale causa delle deviazioni denunciate è un’insufficienza strutturale di sistema, che ha frustrato alla radice i pur lodevoli sforzi della magistratura per accertare i fatti e infliggere adeguate sanzioni: l’assenza, all’epoca, di un’esplicita incriminazione della tortura come reato specifico. Per porvi rimedio, com’è noto, è stata recentemente varata una legge, della quale le sentenze di cui si tratta prendono atto, limitandosi però a constatare di non poterne tener conto nei giudizi sui fatti portati al loro esame (tutti anteriori).

Nessuna valutazione, invece, sull’idoneità della legge a rappresentare davvero, per il futuro, un efficace baluardo contro ogni tipo di violenze del genere di quelli condannati a Strasburgo. E a tener viva l’incertezza rimangono le forti perplessità suscitate dalla definizione di tortura che con la legge stessa si è voluta dare (ben più ristretta della nozione risultante dagli standard internazionali), in particolare pretendendosi che le condotte violente, per essere punibili a questo titolo in Italia, debbano essere ripetute più volte. Come cittadini del mondo e come cristiani osiamo sperare che la parola 'tortura' diventi un arcaismo di per sé incomprensibile ma sappiamo che oggi questa è un’utopia. Come italiani dovremmo, però, almeno volere tutti, non che quella parola esca dal nostro vocabolario o ne sia ridotta ai minimi termini, ma piuttosto che non ci tocchi più leggerla a condanna di fatti accaduti nel nostro Paese.

Ne ha diritto, in special modo, la stragrande maggioranza degli appartenenti alle forze dell’ordine, che fanno quotidianamente il loro dovere: compresi, in primo luogo, i molti che in circostanze difficilissime – come quelle alimentate dalla guerriglia urbana scatenatasi sedici anni or sono per le vie di Genova o quelle che si determinano nelle carceri per la prepotenza di certi detenuti – hanno saputo e sanno mantenere ed esercitare il dovuto rispetto per i diritti e la dignità di tutti. Questa è la vera forza della legge.

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