Il mondo oggi è testimone di drammi che sembrano non conoscere tregua. A Gaza e in Ucraina, lo scontro ha assunto una logica totalizzante. Le leadership di Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu, seppur diversissime per contesto e storia, si stanno muovendo secondo uno schema comune: l’annientamento dell’altro come soluzione finale.
Putin, intrappolato nel suo disegno imperiale post-sovietico, non può permettersi una sconfitta in Ucraina senza mettere a rischio la sua stessa permanenza al potere. Ogni cedimento, ogni passo indietro, verrebbe vissuto come un’umiliazione intollerabile, non solo per lui, ma per l’intero apparato che ha costruito. Così, la guerra continua, anche se logora la Russia, economicamente e culturalmente. Netanyahu, dal canto suo, ha legato la sua sopravvivenza politica alla guerra contro Hamas e alla promessa, esplicita o implicita, di “eliminare” la minaccia palestinese con ogni mezzo. Dopo l’orrore del 7 ottobre, la risposta di Israele è stata sproporzionata, cieca, devastante. Interi quartieri sono stati rasi al suolo, decine di migliaia di morti, tra cui moltissimi bambini. La logica che guida l’azione del governo israeliano non sembra più rispondere a criteri strategici, ma piuttosto a un impulso ossessivo alla vendetta, al dominio, al controllo assoluto.
In entrambi i casi, il punto di non ritorno è superato. Tornare indietro richiederebbe una forza morale e politica che questi leader non hanno, o non vogliono avere. E nel frattempo, si perde il conto delle vite sospese, spezzate, umiliate. Di fronte a questi drammi, il mondo appare impotente. La comunità internazionale è divisa, stanca, bloccata da interessi contrapposti. Nessuno sembra avere il coraggio, la visione o la credibilità per proporre una via d’uscita. Gli Stati Uniti, da sempre attore centrale nella politica globale, sono nel pieno di una profonda crisi interna. La politica estera americana oscilla tra improvvisazioni muscolari e ritiri disordinati. Manca una coerenza, manca una strategia, manca – soprattutto – la capacità di parlare al mondo come guida morale, come forza capace di costruire pace. La Cina è prigioniera delle sue stesse ambizioni neo-imperiali. Il suo silenzio complice davanti alla guerra in Ucraina e la retorica ambigua su Gaza mostrano una leadership preoccupata più dei propri interessi economici e strategici che della costruzione di un sistema internazionale più giusto.
L’Europa, infine, è forse l’attore più deludente. Troppo debole, troppo dispersa, troppo ripiegata su sé stessa. Incapace di parlare con una voce sola, si limita a reazioni timide, dichiarazioni generiche, iniziative inconsistenti. Eppure sarebbe proprio l’Europa, con la sua storia, la sua cultura della mediazione, la sua vicinanza geografica ed esistenziale ai conflitti in corso, a poter giocare un ruolo determinante. In questo scenario, l’assenza di una guida globale capace di interrompere la spirale della violenza e proporre una visione alternativa del mondo è la più grave tra le emergenze. Senza un punto di riferimento, le guerre diventano infinite, i conflitti si moltiplicano, la disumanizzazione avanza. Come se ne esce? Aspettando di vedere chi sarà “il vincitore”? Ma come non capire che, in un mondo tanto interconnesso, quel momento, se mai arriverà, non farà altro che alimentare una catena infinita di odio, rancore, vendetta? Le risposte tradizionali – diplomazia, mediazione, pressioni internazionali – sono necessarie, ma non bastano. La macchina della violenza è ben oliata, gli automatismi della guerra radicati. Serve qualcosa di più radicale. Serve, paradossalmente, un atto di rottura interiore, cioè l’apertura a un’altra logica, che sospenda il giudizio, che cambi lo sguardo.
I tavoli negoziali hanno successo quando c’è qualcuno disposto a interrompere il ciclo della vendetta, a dire “basta” anche quando avrebbe il potere di colpire. Oggi manca questa forza interiore. E forse, il primo passo per ritrovarla, è proprio fermarsi, ascoltare, pregare. Ci troviamo davanti a un collasso della ragione. In fondo questa crisi prolungata non fa altro che smascherare il vuoto del nostro tempo. Senza il senso della sua fragilità della sua finitezza l’umano delira nei suoi bisogni di onnipotenza. La crisi è prima di tutto spirituale. E da lì che bisogna ripartire. Non si costruisce la sicurezza sulla paura, né la giustizia sull’odio. Questo la storia lo ha insegnato mille volte. Gridiamolo sui tetti. Ne abbiamo terribilmente bisogno.