venerdì 3 maggio 2013
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Tutti i ministri sono stati discussi in anticipo, valutati, votati, tranne uno: quello della Cultura. È il meno noto. È sbagliato bocciarlo in partenza, come fa qualcuno. Lasciamolo lavorare, poi tireremo le somme. Però una domanda s’impone: proprio alla Cultura va il meno noto? La Cultura è forse la Cenerentola tra i Ministeri di un gabinetto di straordinaria convergenza politica e con eccezionali compiti da assolvere? In effetti, io penso che fin da quando è nata, la nostra Repubblica non abbia mai mostrato di capire bene cos’è la cultura, come si fa, di che cosa han bisogno quelli che la fanno, cosa possono dare allo Stato, e cosa lo Stato può dare a loro. Lo Stato s’accorge di un’attività quando deve tassarla, ma anche nel campo della tassazione il nostro Stato non ha capito bene cos’è un film un libro o un quadro. Ho qualcosa da raccontare in proposito, un’esperienza nel campo dei libri.Sui compensi per i libri si paga l’Irpef. È giusto. Ma tempo addietro si pagava anche l’Ilor, imposta locale sul reddito. Praticamente, una doppia tassazione. Finché gli importi son bassini, non te n’accorgi. Ma a me è capitato di vincere lo Strega, e gli importi sono saliti. Allora ho fatto mente locale e ho chiesto: perché un autore deve pagare l’Ilor, che è una tassa locale. Mi chiamano a una discussione. Il rappresentante dello Stato ha dialogato con me nel seguente modo: «Quali beni culturali produce lei?», «Libri», «Che genere di libri?», «Romanzi», «Allora deve pagare l’Ilor», «E perché?», «L’Ilor è una tassa locale, va alla regione, e questa regione, bonificando il Delta del Po [io vivo nel Veneto], modifica il paesaggio e quindi influisce sulla sua fantasia». M’ha guardato. L’ho guardato. Nel suo sguardo ho visto l’imperio. Spero che nel mio abbia visto l’ammirazione.Qualche anno dopo, l’Ilor sui prodotti degli autori fu dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale, quindi abolita anche retroattivamente. Ma quel funzionario che la imponeva m’è rimasto nella memoria come il perfetto tassatore statale: se faccio opere di fantasia, devo pagare lo Stato perché lo Stato, modificando il paesaggio, modifica la mia fantasia. Va bene. E se faccio libri di metafisica? Pago una quota all’Aldilà? L’idea comunque che una commissione statale valuti le opere d’arte, e stabilisca da dove traggono l’ispirazione e a quella fonte devolva una parte dei redditi, ha una sua grandezza. L’incomprensione del lavoro culturale va insieme con la sua svalutazione. Che è anche una svalutazione economica. I beni prodotti dalla cultura italiana, dal genio italiano, nel passato e nel presente, hanno una potenzialità di rendimento di cui lo Stato spreme solo una piccola parte. Qui tutti portano gli esempi dei siti archeologici, moltissimi e ricchissimi di opere, che fruttano un introito scandalosamente più basso rispetto a quanto ricavano altri Stati con un passato archeologico vistosamente minore. Ma parliamo di beni culturali d’oggi: il mondo esprime una domanda di lingua italiana, di cinema italiano, di libri italiani, a cui l’Italia risponde in minima parte. Abbiamo all’estero Istituti di Cultura che chiudono le iscrizioni ai corsi d’Italiano, per mancanza di aule. Che quando proiettano film italiani trasferiscono il pubblico dalle aule nei cortili, in cerca di spazio. Ma la diffusione della nostra cultura va incrementata anche all’interno: che ci siano così pochi lettori di libri in Italia è un deficit che incide sulla qualità della vita. Abbiamo una vita senza spirito. La politica senza etica ne è una conseguenza. Queste carenze influiscono sulla lunghezza della crisi: non abbiamo le forze intellettuali per trovare o inventare una via d’uscita. Quando c’era la povertà, uscivano dalla povertà le famiglie che facevano studiare i figli. La famiglie che facevan studiare i figli non se ne sono pentite. Le altre sì.
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