Cuba e Haiti, grandi dimenticate
giovedì 16 gennaio 2025

Millequattrocentosessantaquattro giorni. Tanto è trascorso tra il reinserimento di Cuba nella lista Usa dei Paesi che sostengono il terrorismo e la sua rimozione, martedì. Ovvero quattro anni e quattro giorni di solitudine, in cui l’isola è scomparsa dall’agenda delle priorità statunitensi. Per una curiosa simmetria entrambi i provvedimenti sono arrivati alla fine del mandato dei rispettivi presidenti che li hanno ordinati. Donald Trump l’ha annunciato nove giorni prima di lasciare la Casa Bianca. Joe Biden a sei giorni dall’uscita di scena. Né per il repubblicano né per il democratico – al di là delle vistose differenze di stili e di programmi –, l’isola che non c’è è stata un dossier cruciale. Né la demolizione da parte del tycoon della “normalizzazione” faticosamente raggiunta da Barack Obama e Raúl Castro grazie alla delicata mediazione di papa Francesco, né l’inerzia dell’attuale amministrazione hanno offerto una visione strategica nei confronti del Paese e del resto dell’America Latina. Neppure i proclami muscolari del leader eletto di riprendere il controllo del Canale di Panama o di cambiare il nome al Golfo del Messico sembrano andare oltre l’intenzione di vincere le ritrosie delle nazioni interessate a collaborare al piano di maxi-deportazione.
Come più volte capitato dalla Rivoluzione del 1959, Cuba torna a essere la metafora della storia di incomprensioni tra le due metà del Continente. “Desencuentro”, si dice in castigliano. Parola intraducibile in italiano. “Dis-incontro”, nel senso di mancato incontro.
alla fine della Guerra fredda, il termine ha assunto la connotazione di miope disinteresse di Washington per la porzione di terra compresa tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco. La politica migratoria incentrata sui muri – fisici o legali, esibiti platealmente o occultati – è un riflesso di questa visione o non visione. La Primavera obamiana, in questo senso, ha rappresentato un’eccezione. E, non a caso, aveva suscitato un’ondata di entusiasmo ben oltre i confini dell’“Isla grande”. Nonostante le premesse favorevoli, la congiuntura non si è ripetuta con la presidenza Biden. Di certo ha pesato la deflagrazione e della “Terza guerra mondiale a pezzi” in tutta la sua forza con il moltiplicarsi di crisi internazionali, dall’Ucraina al Medio Oriente. Resta, però, un’occasione persa. Almeno Cuba ha guadagnato una misura in extremis, i cui effetti simbolici sono indubbi, meno quelli pratici alla luce della posizione trumpiana sulla questione. Haiti nemmeno quello. Il suo grido, urlato a perdifiato fin dal 2022, è rimasto in gran parte inascoltato. Neppure l’appello, lanciato dal rappresentante del Paese, Edgar Leblanc, all’ultima Assemblea generale Onu, di trasformare l’attuale missione multinazionale in un intervento delle Nazioni Unite ha sortito effetto. In questo tempo di “Tristi tropici”, vale la pena rileggere le prime frasi pronunciate da Francesco all’arrivo all’aeroporto dell’Avana il 19 settembre 2015: «Geograficamente, Cuba è un arcipelago che si affaccia verso tutte le direzioni, con uno straordinario valore come “chiave” tra nord e sud, tra est e ovest. La sua vocazione naturale è quella di essere punto d’incontro perché tutti i popoli si trovino in amicizia, come sognò José Martí, “oltre le strettoie degli istmi e le barriere dei mari”».
Certo il Papa non si è limitato alle parole. Con il suo stesso pellegrinaggio tra Cuba e Stati Uniti, ha congiunto i frammenti del Continente simbolicamente. La scelta del presidente Miguel Díaz-Canel di comunicare la scarcerazione di 553 prigionieri in occasione del Giubileo – come ha tenuto a specificare – per primo a Jorge Mario Bergoglio è un riconoscimento a questo ruolo di ostinato “Pontefice” nel senso di costruttore di ponti. Sempre nel discorso dell’Avana del 2015, concludeva: «Incoraggio i responsabili politici a proseguire su questo cammino e a sviluppare tutte le sue potenzialità, come prova dell’alto servizio che sono chiamati a prestare a favore della pace e del benessere dei loro popoli, e di tutta l’America, e come esempio di riconciliazione per il mondo intero. Il mondo ha bisogno di riconciliazione in questa atmosfera di terza guerra mondiale “a pezzi” che stiamo vivendo». Dieci anni dopo, le sue parole risuonano con ancora più forza.

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