venerdì 9 dicembre 2022
Resta un reato penale con pene detentive in 160 Paesi anche se non c’è dolo. Denunce e cause temerarie avanzate per scoraggiare i giornalisti sfruttando le leggi esistent
Alcuni giornalisti tunisini in corteo nel maggio scorso, dopo che il Paese era stato declassato da Rfs a 93 Paese al mondo nella classifica della libertà di stampa

Alcuni giornalisti tunisini in corteo nel maggio scorso, dopo che il Paese era stato declassato da Rfs a 93 Paese al mondo nella classifica della libertà di stampa - .

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Il rischioso e repentino declino del mercato dell’informazione giornalistica di qualità non ferma gli avvoltoi. Che il giornalismo indipendente e responsabile, strutturato in aziende e contratti, sia in difficoltà globale non è un mistero. Eppure Davide fa ancora paura a Golia e i potenti (politici ed economici) ben si guardano dall’adeguare le leggi agli standard richiesti dalle organizzazioni internazionali, e piuttosto trascinano – o cercano di trascinare – i giornalisti nelle aule dei tribunali. Le armi di questa battaglia sono dunque i codici civili e penali e le procedure stabilite per applicarli. Lo attesta una recente ricerca Unesco (in uscita oggi nella collana “World Trends Report on Freedom of Expression and Media Development”), divulgata e commentata in Italia da Ossigeno per l’informazione (www.ossigeno.info), secondo cui l’uso scorretto del sistema giudiziario resta lo strumento con cui viene “compressa” in tutto il mondo la libertà di espressione. L’organizzazione parla di «effetto raggelante » delle accuse di diffamazione, che sono in aumento, favorite dalla «proliferazione di leggi che non tengono conto, come e quanto dovrebbero, di tutelare del diritto di informazione, o contraddicono questo obbligo, ad esempio configurando la diffamazione come un reato e punendolo addirittura con il carcere. Entrambe le cose, ricorda l’Unesco, «limitano fortemente l’autonomia dei giornalisti e dei difensori dei diritti umani».

Le Nazioni Unite attestano che negli ultimi anni le leggi liberticide – a oggi 57 – hanno trovato spazio nei codici di 44 Paesi. Attualmente, ben 160 Paesi continuano a perseguire la diffamazione come un reato. «Una conseguenza di tutto ciò – è il commento di Alberto Spampinato, presidente di Ossigeno – è il permanere di leggi punitive verso chi esprime legittime critiche al potere. Un’altra conseguenza è il diffondersi delle cosiddette cause e querele temerarie per diffamazione a mezzo stampa e per altri reati utilizzate come “schiaffi” a chi pubblica notizie scomode. La terza conseguenza è la limitazione del dibattito pubblico privandole delle voci e delle opinioni critiche ». Il documento dell’Agenzia delle Nazioni Unite descrive i problemi che si manifestano attraverso il sempre più ampio «uso scorretto del sistema giudiziario per attaccare la libertà di espressione», ovvero con quelle azioni legali che in Italia si chiamano querele o cause temerarie e che in inglese si chiamano appunto slaps, “schiaffi”. Il risultato della ricerca: dal 2016 a oggi, 57 leggi e regolamenti nuovi o modificati contengono un linguaggio eccessivamente vago o punizioni sproporzionate tali da mettere in pericolo la libertà di espressione ‘online’ e la libertà dei media. Inoltre stanno aumentando le querele, le cause civili per diffamazione e le «azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica».

In pratica, dieci anni di campagne volte a depenalizzare la diffamazione (cioè a regolarla con il codice civile e a punirla senza il carcere) si sono tradotti in un fallimento (l’Unesco preferisce parlare di «una battuta d’arresto»), tant’è che nell’80% dei Paesi (Italia compresa) la diffamazione è ancora regolata principalmente dalla legge penale e in molte nazioni i colpevoli sono passibili (come da noi) della pena detentiva. Gli Stati in dieci anni hanno reintrodotto o inasprito le norme sulla diffamazione semplice e a mezzo stampa e sull’ingiuria, hanno promulgato nuove leggi per rafforzare la sicurezza informatica e combattere giustamente le “notizie false” e l’incitamento all’odio e sono aumentate le cause civili per diffamazione, a volte fondate, «ma spesso tali da “turbare” la libertà di espressione e il lavoro dei giornali e dei giornalisti, per le richieste di risarcimento sproporzionate e i costi legali proibitivi», osserva Ossigeno, il quale segnala come sulla scena siano apparse nuove forme di compressione del diritto d’espressione, quali il forum shopping che è poi la pratica di selezionare il tribunale in cui intentare un’azione sulla base della prospettiva dell’esito più favorevole.

Nell’Europa centrale e orientale, nel periodo considerato, è aumentato il ricorso alla legge penale per punire la diffamazione - reato in 15 dei 25 Stati della regione – spesso con sanzioni detentive. La diffamazione è ancora un reato in 39 dei 47 Paesi africani; in Asia e Pacifico, 38 nazioni su 44 mantengono il reato di diffamazione, sei l’hanno abrogato e una ne ha proposto l’abrogazione parziale; i reati di diffamazione persistono in 29 dei 33 Stati dell’America Latina e dei Caraibi e continuano ad essere usati come armi contro giornalisti e blogger. In Europa occidentale e Nord America, la diffamazione penale rimane negli statuti di 20 dei 25 Paesi, la maggior parte mantenendo le sanzioni detentive. Tra il 2003 e il 2018, cinque Stati hanno abolito le leggi penali sulla diffamazione a mezzo stampa e l’ingiuria e un altro le ha parzialmente abrogate.

E in Italia? Secondo Giuseppe F. Mennella, segretario generale di Ossigeno, «cinque legislature non sono bastate a mettere mano al Codice penale fascista e alla legge sulla stampa», anche se due proposte di legge sono state presentate in questo primo scorcio di legislatura; una al Senato (primo firmatario Walter Verini del PD) e l’altra alla Camera (primo firmatario Pietro Pittalis di Forza Italia). « Di quest’ultima proposta non è ancora disponibile il testo. Abbiamo invece quella del senatore Verini – dice Mennella –. In sintesi, l’ambito di applicazione della legge sulla stampa viene esteso alle testate telematiche registrate. La reclusione prevista dal Codice penale viene sostituita dalla multa fino a 10mila euro. Se il reato di diffamazione a mezzo stampa è commesso con attribuzione di fatto determinato la multa è di 10mila euro nel suo minimo e di 50mila nel suo massimo. Si tratta di cifre altissime se rapportate all’editoria italiana nel suo complesso (che è molto di più dei due o tre grandi gruppi). Sono somme in grado di far chiudere testate medio- piccole».

Per questo qualcuno dice “meglio la galera che queste multe”». Non è tutto. «Le pene proposte sono presentate come sostitutive di quelle previste dall’articolo 13 della legge sulla stampa, ma la proposta non abroga l’articolo 595 del Codice penale che stabilisce le pene detentive per la diffamazione, tutti i tipi di diffamazione, anche quella semplice». Infine, «resta il divieto per i giornalisti di provare in giudizio la verità dei fatti narrati». Quanto alle liti temerarie dirette a guadagnare risarcimenti dei danni da diffamazione, «la proposta prevede per chi ha agito in giudizio contro il giornalista con dolo o colpa grave la condanna al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma non superiore a trentamila euro», spiega il segretario di Ossigeno, che segnala come nella proposta sia presente «la modifica dell’articolo della legge sulla stampa relativa alla rettifica. Modifica peggiorativa, perché verrebbe introdotto l’obbligo di pubblicazione della rettifica senza titolo, senza commento e senza risposta. Pubblicare spontaneamente una rettifica può essere causa di non punibilità. E ciò sarebbe una novità positiva».

Infine, «l’ipotesi della depenalizzazione del reato di diffamazione non è presa in considerazione. Non viene introdotto il reato di ostacolo all’informazione. Il reato di diffamazione a mezzo stampa resta ancora e sempre doloso e si continua a non voler introdurre la distinzione tra macchina del fango e reato commesso per errore, cioè per colpa. Insomma, il giornalista – al contrario di tutti gli altri professionisti – non può sbagliare per negligenza, imperizia o imprudenza. Ciò comporta una conseguenza di non poco rilievo: l’impossibilità per i giornali e i giornalisti di assicurarsi contro i risarcimenti per danni da diffamazione», conclude amaramente Mennella.

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