Con Trump l'ombra del conflitto di interessi
sabato 12 novembre 2016

Il capolavoro del plurimiliardario Donald Trump, esponente del top 1% dei 'ricchi globali', è stato quello di convincere le classi sociali media e bassa di essere, lui, un «outsider», il paladino degli ultimi e della realtà operaia bianca dimenticata dalle élite e travolta dalla concorrenza dei Paesi emergenti con la globalizzazione. Non conosciamo ancora al momento di scrivere la composizione del prossimo governo federale, ma sappiamo che uno dei più papabili al Tesoro è James Dimon, capo di JP Morgan, mentre si parla di ruoli chiave per altri big della finanza mondiale come David Malpass, ex capo economista di Bear Stearns, una delle grandi banche fallite ai tempi della crisi finanziaria.

Non è un caso che la prima cosa che abbiamo sentito subito dopo l’elezione è il desiderio di cancellare il Dodd-Frank, ovvero la legge che cercava di porre rimedio alla deregulation che aveva portato alla crisi finanziaria globale. Se il buon giorno si vede dal mattino… La verità è che il top 1% che prima si limitava a finanziare le campagne elettorali dei politici di vertice adesso ha fatto un salto di qualità e ha deciso di metterci la faccia direttamente, in competizione con i politici tradizionali e contendendo lo spazio ai capipopolo antagonisti. La cultura e l’istruzione sono gli strumenti che ognuno di noi ha a disposizione per non farsi abbindolare dalle promesse di sfidanti al governo della 'storia che cambia' che non sono mai state sottoposte alla dura verifica dei fatti. I dati pubblicati dal New York Times sulle quote dei votanti pro Clinton o Trump nelle diverse fasce sociali indicano purtroppo chiaramente come laddove cultura e istruzione erano minori l’effetto della propaganda di Trump è stato più forte. Non poteva che essere così perché basta un livello medio di cultura economica per capire che non si può aspettare né negli Usa né altrove un miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza dei cittadini da guerre commerciali, muri al confine per bloccare le entrate dei migranti e il ripudio degli accordi sul clima.

Andando alla cruda realtà dei fatti, Trump non è affatto un «outsider», ma uno degli uomini più ricchi e potenti negli Stati Uniti con un patrimonio di circa 4 miliardi di dollari e un impero di quasi 500 imprese nei più disparati settori tra i quali primeggia l’edilizia. Poiché qualunque grande impresa nel sistema economico mondiale vive a leva (ovvero si indebita pesantemente per poter realizzare investimenti o qualunque tipo di altra attività) il suo legame con il sistema delle grandi banche è a filo doppio. Infatti la gratitudine dell’«antisistema» Trump per il «sistema» stesso non ha tardato a esprimersi con i primi nomi di ministri papabili e le prime idee di deregulation. È vero che gli Stati Uniti non sono l’Italia e hanno, sulla carta, regole importanti per prevenire e contrastare i conflitti d’interesse. Ma in realtà queste regole sono molto spesso solo formalismi che non fanno che aumentare il livello di ipocrisia.

Le regole di cui parliamo sono in primis la trasparenza su sponsor e finanziatori e, soprattutto, il qualified blind trust, ovvero il meccanismo per il quale il candidato eletto deve mettere il proprio patrimonio nelle mani di un amministratore che non dovrebbe avere avuto in passato relazioni con il proprietario e che lo gestirà senza entrare in contatto con lo stesso. Nei fatti, fuori da ogni ingenuità, vediamo come funzionano queste cose. Non si rimane presidenti a vita e un politico con gli interessi di Donald Trump sa essere abbastanza scaltro da non creare 'conflitti d’interesse' (usiamo la parola in altro senso evidentemente) con coloro con cui ha fatto, fa (per interposta persona del trust) e dovrà fare affari terminato il mandato. Una novità importante del problema è che, per la prima volta, una parte molto rilevante della ricchezza di Trump è fuori dagli Stati Uniti. Tutto questo potrebbe avere implicazioni rilevanti nei rapporti con gli altri Paesi moltiplicando i problemi di conflitti d’interessi nella politica estera.

Se il problema principale dello scontento di ampie fasce della popolazione dei Paesi occidentali sta nel fatto che la ricchezza creata nell’ultimo ventennio è stata nella stragrande maggioranza appannaggio del top 1% con le sole briciole andate a tutti gli altri è lecito sperare che un rappresentante dell’élite dei privilegiati con tutte queste incrostazioni e relazioni possa preoccuparsi in primo luogo degli ultimi o della classe media che rischia di sparire come i ghiacci polari? Niente paura, perché Trump saprà tenersi alla larga dai conflitti d’interesse palesi (cioè quelli con i propri finanziatori). Se poi gli interessi con cui non entrare in conflitto coincideranno con quelli degli scontenti della globalizzazione allora il miglioramento delle sorti di questi ultimi ci sarà. Sappiamo tuttavia che sinora non è stato così e dalle prime indicazioni strategiche del presidente eletto – smantellamento della riforma della sanità targata Obama e della riforma che ha un po’ frenato la finanza rapace – c’è ragione di dubitare che qualcosa di buono si profili all’orizzonte.

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