mercoledì 13 giugno 2012
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Come un contropie-de al novantesimo: quando meno te l’aspetti loro scattano e ti ribaltano una partita, o forse un’opinione ch’era divenuta certezza con lo scorrere del tempo. «Vorrei rendere utile la popolazione carceraria, quella non pericolosa, per i lavori di ripresa del territorio», erano state le parole del ministro Paola Severino dopo aver visitato l’istituto penitenziario della Dozza a Bologna. È bastato lo sguardo di una donna attraverso le sbarre, camminando per i corridoi e stringendo qualche mano, per accorgersi che lì dentro – e in tutte le carceri italiane – alberga un’energia umana smisurata, ma compressa. Aveva specificato che si trattava della popolazione «non pericolosa», ovverossia gli artefici di piccoli atti di sabotaggio, furti e delitti di basso profilo: non si trattava certamente di far abbandonare le celle a massimi esponenti della malavita nazionale. Eppure non è bastato per arginare il luogocomunismo dilagante, anche in piena situazione di emergenza. «Non li vogliamo», ha gridato ai tg nazionali più di qualche abitante delle zone interessate. Come dire: preferiamo l’addiaccio all’aiuto, non richiesto né gradito, di quegli avanzi di galera.Dopo questo rifiuto, a Padova – dietro le sbarre del carcere di massima sicurezza Due Palazzi – è partito il tam-tam del riscatto. Una rivolta silenziosa, spontanea, umanitaria. Inarrestabile come appare il bene quand’è frutto di un cuore "impossibilitato" ad amare. Hanno raccolto le firme, hanno solidarizzato tra popoli di religioni diverse, per una volta pure loro hanno messo da parte i delitti commessi e hanno cercato l’uomo nascosto dietro la colpa, per interpellarne il cuore. In un foglio, domenica a Messa, campeggiavano le loro firme e l’importo che ciascuno devolveva. Hanno partecipato così alla grande colletta nazionale della Chiesa italiana. Come dire: «Se non ci vogliono, accettino il nostro gesto d’amore». Là dentro non ci sono i soldi per la carta igienica e il sapone, per il detersivo e per l’acqua calda: ultimamente scarseggiano pure il cibo e la speranza umana. Ma anche nell’abisso più oscuro della malvagità riesce a splendere ancora una fiamma buona e calda. Il conto corrente di Viktor, ragazzo dalla pelle nera approdato sulle coste italiane, segnalava ben 1,75 euro. Li ha devoluti tutti per i terremotati: da domattina non potrà più nemmeno comprarsi il dentifricio o telefonare a casa. Più di qualcuno s’è accorto che quel gesto era il memoriale evangelico della povera vedova che lo sguardo del Messia additò come esempio dell’amore che non calcola.Il terremoto è una calamità naturale. Del terremoto si può, però, parlare anche per metafora, per additare uno sconquasso interiore, una distruzione generale, un disastro dell’umano. Il carcerato conosce il peso delle macerie: per averle create e per doverle ora rimuovere e ripagare con la detenzione. Ma nulla può arrestare la grazia di Dio all’opera nei momenti più insperati e inattesi. Perché, schiacciato dal peso delle macerie e dei rimorsi, là dentro qualcuno ha intuito che saranno i gesti d’amore le uniche costruzioni che reggeranno alle calamità naturali e alle presunte certezze dell’uomo. Eppure, è bastata la proposta intelligente e alquanto azzardata di una donna che conosce bene la Costituzione e il Codice Penale per riportare alla memoria di tanti, di troppi, il vecchio adagio della "chiave della cella da gettare in mare". Eppure, basterebbe dare a queste persone una piccola chance per accorgersi che la "chiave nel mare" non riconcilia l’uomo con gli uomini. E forse nemmeno l’uomo con se stesso. Perché dietro le sbarre ogni uomo è solo, a nudo contatto con il bene che sa riconoscere e che lo distanzia dal male fatto. Tra coloro che inciampano c’è ancora chi continua a credere nell’amore, e a trovare l’Amore. A tal punto che, ogni tanto, si rialzano e provano a farlo risplendere. Nel Suo nome.
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