giovedì 31 agosto 2017
Il rogo che continua a devastare la conca di Sulmona Questa è una tragedia, per usare il termine più appropriato. Sono dieci giorni che a fasi alterne, ma senza aver mai raggiunto il punto di svolta
Il rogo che continua a devastare la conca di Sulmona
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Il rogo che continua a devastare la conca di Sulmona Questa è una tragedia, per usare il termine più appropriato. Sono dieci giorni che a fasi alterne, ma senza aver mai raggiunto il punto di svolta, senza aver mai potuto dire di aver realmente domato i roghi, sta andando a fuoco la conca di Sulmona. Si tratta di un’area delicatissima, carica di storia e di spiritualità, nel cuore della «regione verde d’Europa», come l’Abruzzo è chiamato.

Non bastava all’Abruzzo essere assurto alla cronaca, dopo il terremoto dell’Aquila ad aprile 2009, coi suoi 309 morti e la inabitabilità del capoluogo regionale col suo circondario; dopo il terremoto di Amatrice ad Agosto 2016, che ha toccato pesantemente anche l’Aquilano e il Teramano settentrionali; dopo le 29 vittime dell’hotel Rigopiano, a gennaio scorso. Adesso il fuoco. Si sono alzati, e alleati con le fiamme, forti venti, trascinando estesissimi fronti ignei sulle coste montane, autentiche erte dove dabbasso non si riesce a salire, o si arriva molto precariamente, in numero e con mezzi di spegnimento limitati; e dove neppure i lanci dei Canadair impattano efficacemente, sempre a causa della ripidità.

Va a fuoco la montagna, prima dal versante orientale tra Pacentro e passo san Leonardo, ora su quello più sovrastante Sulmona; e anche oltre, nella valle dell’Aterno che da qui sale all’altopiano dell’Aquila. Se è vero che qualcuno battezzò decenni fa gli abruzzesi come forti e gentili, adesso è alla forza che devono far appello. Quale perdita: veder divorare dal fuoco i fianchi di una vallata un tempo così verde (straordinariamente apprezzata da scienziati e cultori, da turisti e residenti per la sua biodiversità); veder cancellati decenni di coraggioso rimboschimento, avviato sin dagli anni 50 del secolo scorso, che avevano ricoperto di un foltissimo manto verde i monti; veder ridotte a spettrali stecche fumanti le chiome - un tempo richiuse a galleria, dove a stento il sole s’infiltrava - nei boschi di conifere, diventate serbatoi di resina quanto mai combustibile.


Tutta questa bellezza sta venendo cancellata. Per decenni i monti si riconsegneranno all’immagine brulla che si vede nelle foto del 1800. Quale angoscia. Quale sofferenza. Una cosa va detta e cioè che parte della sofferenza viene dai media. Con qualche decorosa eccezione, da parte di chi cerca di informarsi in situ, direttamente; con qualche generoso, raro salvataggio di commenti che non fossero o sideralmente lontani da quanto sta accadendo, o sterilmente polemici (per il mancato coordinamento, soprattutto, delle autorità civiche, più che delle forze impegnate nello spegnimento; per l’entità dei mezzi mobilitati ecc.) si sente parlare dell’andata a fuoco di mezz’Abruzzo poco prima, o poco dopo, la notizia dell’acqua che non arriverà ai piani alti di Roma. Non è la stessa cosa, con tutto il rispetto per l’acqua razionata nella capitale.

Il razionamento finirà. L’opera del fuoco durerà, qui. Molto a lungo. C’è un’altra cosa da dire e non suoni retorica in mezzo al dramma. Quest’area non è solo naturalisticamente straordinaria. È un’area sacra. Carica di storia. Lo è da 2.500 anni. Qui, avvolte dal fumo dei vicini roghi, si sono trovano le grandi rovine del tempio di Ercole Curino, per secoli riferimento delle gentes italicae prima della sottomissione a Roma. Area cultuale prima pagana, poi cristiana: sopra il tempio c’è infatti l’eremo dove nel 1294, in tempi quanto mai turbinosi per il papato, re e nobili salirono per chiedere all’anziano eremita, in fama di santità, Pietro Angeleri, di essere eletto Papa. Lo divenne, col nome di Celestino V. Ma di lì a poco trovò più impervio ascendere al soglio di Pietro che alle balze del suo Morrone, per cui fuggì, «fece per viltade il gran rifiuto» come sembra aver scritto di lui Dante, per morire di lì poco dopo, imprigionato, dall’altra parte di questa giogaia di monti. Ma l’ordine da lui fondato visse prosperò per secoli sotto al Morrone, diffondendosi ampiamente e creando quel gioiello che è la loro casa generalizia, la badia morronese, tra le più grandi strutture abbaziali in Italia.

E sempre da Sulmona, vari altri Papi vennero ancora. Erano cresciuti all’ombra dei boschi sacri cari a Ovidio, il poeta dell’amore, che vi nacque nel 43 a. C. e che cantò appassionatamente la bellezza della sua città e della Fonte d’Amore oggi lambita dal fuoco; di questa terra, quando non si chiamava ancora Abruzzo, ma terra peligna (dal nome dei suoi abitanti, i peligni) sì. Da mesi un implacabile maglio la colpisce. Colpisce tutto l’Abruzzo. Dopo il terremoto, la neve, adesso il fuoco; con un filo di fumo nero (lapsus, per non scrivere humour), ci si potrebbe chiedere: stanno finendo gli elementi naturali… finirà anche la sofferenza per questa terra, si può sperarlo?

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