sabato 23 ottobre 2010
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Il sorriso sembrava non lasciarlo mai. Anche quando – e non lo faceva spesso, né volentieri – raccontava della prigione, dei soprusi subiti, delle umiliazioni. E si stupiva del tuo stupore, quasi che la sua vita, le sue vicende, il suo dolore davvero non fossero niente di speciale, non avessero niente di straordinario. E se glielo dicevi si stringeva nelle spalle. Sorridendo: «È quello che qualunque sacerdote al mio posto avrebbe fatto».Francis Xavier Nguyen Van Thuân ne era assolutamente convinto. Ma, in più che qualche modo, l’apertura ieri al Vicariato di Roma della sua causa di beatificazione, a otto anni dalla morte, conferma la straordinarietà di una vita che, a definirla un romanzo, le si fa un torto. Figura simbolo della resistenza della Chiesa vietnamita a un regime che avrebbe voluto cancellarne ogni traccia, certamente. Ma anche, e soprattutto, simbolo di come una fede salda – capace di nutrirsi di se stessa attraverso la croce costruita con un pezzo di legno e lo spago regalatigli dai suoi carcerieri, e la messa quotidiana clandestina celebrata come poteva (il palmo della mano come un calice, tre gocce d’acqua e una di vino) – riesca a mandare in crisi anche chi cerchi in ogni modo di svuotarti l’anima.Non era modestia, quella con cui Van Thuân respingeva con un’alzata di spalle e un sorriso . Era, molto semplicemente, l’ “ovvio dei santi”, di chi ha saputo deporre nelle mani di Cristo tutta la propria sapienza, tutta la propria cultura, la propria vita. Senza riserve. Senza esitazioni. Senza rimpianti. Nominato vescovo sei giorni prima della caduta di Saigon, il 24 aprile del 1975, indicato come elemento “reazionario” (forse perché nipote del presidente del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem) da alcuni dei suoi stessi confratelli, passò quasi direttamente dalla Curia al carcere. Tredici anni, nove dei quali in isolamento: Saigon, Nha Trang, Vinh–Quang. Guardato a vista. Nessuna accusa specifica. Nessun processo. Da impazzire.Eppure non fu lui a impazzire. Casomai a diventar matto fu quel regime che, non volendolo eliminare per non farne un martire, cercò in ogni modo di spezzarlo, senza mai neppure scalfirlo. «Cristo è la mia corazza», diceva; e l’impressione, netta, era che la sua, prima che una citazione, fosse una constatazione autobiografica. E così aveva finito con lo spiazzare tutti: in primis i carcerieri che, stupiti e ammirati, gli passavano sottobanco le cose che chiedeva – sempre «per favore...» – compresa la carta che gli serviva per inviare messaggi ai suoi fedeli e per “costruirsi” una Bibbia. E poi i suoi compagni nel “campo di rieducazione”. L’agenzia Asia News ha pubblicato la lettera che uno di loro, Hai, rilasciato prima di lui, gli scrisse: «Caro fratello Thuân, vi ho promesso che andrò dalla Signora di La Vang a pregare per voi. In questi anni ogni domenica, quando non pioveva, sono andato in bicicletta fino al santuario della Madonna, perché qui la chiesa è crollata durante la guerra. Ho detto per te questa preghiera: “Cara Madre Maria, non sono cattolico e non conosco nessuna preghiera. Ma ho promesso a fratello Thuân di pregarti, così sono venuto qui per chiedere a te Madre Maria, che conosci questo mio fratello, di aiutarlo se ha bisogno di qualcosa”».Quando venne rilasciato, nell’88, restò una spina nel fianco nel regime, che tre anni dopo lo costrinse a lasciare il Paese. Iniziarono gli anni “romani”, accolto nella Curia da Giovanni Paolo II che, nel 1998, lo volle a capo del pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che avrebbe guidato fino alla morte, e lo creò cardinale. Nel “nuovo” Vietnam sarebbe ritornato, poco prima di morire. Accolto come un eroe dai suoi fedeli, e vestito con la porpora. Ma con al collo la stessa croce e la stessa catena costruite tanti anni prima in carcere, con l’aiuto di un secondino. Aveva vinto lui.
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