Cinque cerchi ammalati ma si riaccende il fuoco
venerdì 26 marzo 2021

Anche i Cinque Cerchi sono fragili, e si sono ammalati. Ma il viaggio della fiaccola olimpica che è partita ieri da Fukushima con destinazione Tokyo porta con sé il calore giusto per provare a guarirli. A un anno esatto dal rinvio dei Giochi del 2020, il Giappone rimette in moto il meccanismo complesso e carico di incognite per disputarli in sicurezza tra quattro mesi. Sarà un’edizione anomala, dispari, vaccinata, a porte chiuse per il divieto a frequentarla per gli spettatori stranieri, e guardata con sospetto anche dai padroni di casa, carica di tamponi e paure.

Ma proprio per questo il suo messaggio sarà ancora più forte, e aiuterà a capire che le Olimpiadi servono, sempre e comunque. I Giochi in tempo di Covid proveranno a restituirci almeno una parte della normalità perduta: non per nascondere dietro una medaglia la realtà terribile che stiamo attraversando, ma per convincerci che ci si possa convivere. Ne abbiamo bisogno, come abbiamo bisogno dell’idea che a luglio inoltrato potremo permetterci di lasciarci andare alle seduzioni dell’estate, dove anche uno sconosciuto diventa un eroe se vince una medaglia. E al fascino dello sport vero, con le sue imprese, le sue storie meravigliose. L’Olimpiade serve, basta tornare indietro alle ultime.

Perché non possiamo negarci immagini come quelle dei Giochi di Rio nel 2018, con l’atleta cinese che supera i controlli di vigilanza e si inginocchia sotto al podio con un anello in mano per chiedere alla sua fidanzata che aveva appena vinto una medaglia, di sposarlo. Oppure la neozelandese e l’australiana che cadono in pista durante la corsa, si rialzano e arrivano insieme abbracciate al traguardo. Magia pura, introvabile altrove. Perché i Giochi ammaliano, ma insegnano qualcosa anche quando ammazzano i sogni: anni per pensare, sudare, programmare, avere dubbi.

Su una gara sola, su quel che resta del giorno, di una carriera, di una vita intera. Le Olimpiadi servono a ricordarci che esiste una dimensione in questo mondo storto dove accadono ancora cose che sembrano impossibili, anche in negativo. Come il gesto dell’atleta dello judo egiziano, che sempre a Rio si rifiutò di stringere la mano a fine gara al suo avversario perché era israeliano. In un altro contesto sarebbe stato solo criticato, ai Giochi un fatto del genere annienta e squalifica: non si dimentica, e si punisce.

Le Olimpiadi servono a ricordarci che il mondo non è uguale per tutti. Difficile cancellare la corsa sgraziata e meravigliosa nei 100 metri femminili di Karimah Abuliadeyel vestita con lo hijab nero. Un fagotto lento, impacciato. Karimah arrivò ultima e staccatissima dalle altre, ma pochi hanno pensato che in Arabia ancora oggi le donne non possono praticare sport a livello agonistico e ai Giochi ci arrivano senza preparazione e allenamento, invitate dal Comitato Olimpico Internazionale. Per questo la sua corsa disperata era bellissima e vincente. Le Olimpiadi servono a insegnarci che sul podio, come nella vita, ci salgono in pochi. Ma che arrivare quarti significa averci provato. Occorre un talento enorme per afferrarle, basta un soffio per perderle.

L’Olimpiade è una storia d’amore in cui ci si vede solo una volta ogni quattro anni, cinque se c’è di mezzo il Covid. Quindi è fedeltà pura, confronto, contatto, esame crudele. Se sbagli, non puoi riparare subito. Se la accarezzi, diventa una droga. Una volta provata, la rivuoi. Storie, persone, umanità: con o senza spettatori cambia molto, ma non tutto. Perché resta qualcosa che dura un attimo lunghissimo. Solo un’Olimpiade regala tanto. Riempie, sazia fino alla prossima. Un viaggio senza illusioni, non vincono sempre i buoni e spesso non perdono i cattivi. Ma c’è tanta vita dentro, c’è un senso, l’antidoto, una speranza più alta di un podio e più contagiosa di qualunque virus.

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