mercoledì 25 marzo 2009
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Le cifre diffuse da Amnesty International parlano chiaro: sono i soliti cinque Paesi ( Cina, Iran, Arabia Saudita, Usa e Pakistan) a mettere insieme, da soli, il 93% di tutte le condanne capitali del mondo. Ma le cifre non sono tutto, soprattutto non dicono tutto. Non raccontano, per esempio, che l’Iran, con almeno 346 esecuzioni, è il Paese con la più alta percentuale di condannati a morte: 1 ogni 200 mila abitanti. Ennesima dimostrazione, pratica e scientifica insieme, che la pena capitale non riduce il crimine e nemmeno se stessa, visto che l’Iran vanta questo record ormai da molti anni. E non spiegano, le cifre, che il rapporto certifica nel tempo non solo la spietatezza del sistema penale cinese (almeno 2.390 esecuzioni nel 2008) ma soprattutto l’inadeguatezza politica della Cina ad assumere quel ruolo internazionale a cui non solo aspira ma a cui, per certi versi, avrebbe anche diritto. Tutti più o meno conoscono le statistiche dell’incredibile sviluppo economico cinese degli anni Novanta: una crescita interna annua intorno al 10% fino a diventare, proprio nel 2008, la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti, con la prospettiva di passare al primo posto nei prossimi dieci- quindici anni. Poi c’è l’espansione internazionale: industriale ( alla fine del 2007, quasi 7 mila aziende cinesi avevano realizzato investimenti diretti in 173 Paesi per 184 miliardi di dollari), finanziaria ( con il Giappone, la Cina è il maggiore acquirente mondiale di Buoni del Tesoro Usa) e politica ( con una forte penetrazione in Africa e alleanze strategiche con i Paesi dell’Asia centrale, con l’Iran e con la Russia). La Cina, dunque, potrebbe e forse dovrebbe sedere nel ristretto consesso dei Paesi che ' tirano' il mondo, lo regolano e ne dettano le grandi tendenze. Ma per farlo, essere grandi e grossi, ricchi e potenti, non basta. Occorre un’autorità riconosciuta, che non si compra né si conquista con le armi ma solo con l’esempio, con la fiducia nei propri mezzi e nei messaggi che essa riesce a mandare. Questo alla Cina post- comunista manca ancora. Quando Amnesty dice ' almeno' 2.390 condanne a morte, vuol dire che sono state certamente di più, ma che il sistema giudiziario cinese è talmente arbitrario e opaco che non si può essere certi né delle procedure né delle sentenze che esse producono. Secondo fonti diverse ( la Fondazione Dui Hua, con sede negli Usa) le pene capitali nel 2006 sarebbero state addirittura 7.500­8.000, comminate in base ai 68 reati che prevedono la condanna a morte, compresi evasione fiscale, corruzione, appropriazione indebita e traffico di droga. Anche qui, le statistiche replicate negli anni dimostrano che la pena di morte non ha alcun effetto positivo sulla quantità o sulla qualità dei crimini commessi dai cinesi. Testimoniano, però, della rigidezza del regime, che non riesce a riformare se stesso e le proprie abitudini, e così manifesta una scarsa sicurezza nei risultati ( economici e non solo) raggiunti e nel livello del consenso su cui può contare. E stiamo parlando di consenso di sistema, non verso questo o quel governo, il genere di solidità di cui per esempio possono vantare gli Usa, dove nessuno mette in discussione un certo stile di vita, un certo assetto politico, una certa visione della vita. La grande Cina odierna, dunque, resta prigioniera del più curioso dei paradossi: essere così forte nel confronto con gli altri e così debole in quello con se stessa.
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