Ciò che i giudici hanno detto
giovedì 10 ottobre 2019

No, non è un cedimento postumo al ricatto di un "papello" di Totò Riina la conferma della censura della Corte europea dei diritti umani (Cedu) per l’«ergastolo ostativo». Non è vero, insomma, che d’ora in poi mafiosi e terroristi, camorristi e ’ndranghetari, saranno sicuri di fruire comunque, prima o poi, di "benefici" come permessi e semilibertà, fino alla liberazione condizionale dopo ventisei anni di espiazione carceraria, che l’art. 4-bis della legge penitenziaria ha finora precluso a coloro i quali, condannati in quanto rientranti in tali categorie, non prestino «collaborazione» con la giustizia.

Sono dunque del tutto infondate le preoccupazioni immediatamente espresse o ribadite da valorosi magistrati o ex-magistrati da sempre impegnati con rigore e competenza in indagini sulla criminalità organizzata? Un’altra volta si deve rispondere di no. E meno ancora si può rimanere insensibili allo sconcerto di persone come la vedova dell’agente Vito Schifani quando non a torto ricorda, a confronto del carcere perpetuo per boss ed esecutori spietati, l’«ergastolo a vita» inflitto a lei nella primavera del 1992 con la strage di Capaci.

Molto, però, dipende da una integrale lettura di ciò che la Corte europea ha davvero detto e voluto dire e che è in parte diverso da ciò che qualcuno attribuisce o addebita al collegio giudicante; e subito dopo dipende dalla capacità del nostro Stato di rispondere in modo puntuale – senza isterismi, senza arroganze, senza applicazioni esorbitanti – al messaggio europeo. E qui sono in molti a essere chiamati in causa, ciascuno nel suo ambito: i detentori del potere legislativo, cui si rivolge direttamente, per una riforma della legge vigente, la Corte stessa; prima ancora la nostra Corte costituzionale, che il 22 ottobre dovrà pronunciarsi su questioni in larga parte ricalcate su quella affrontata a Strasburgo; ma inoltre, e soprattutto, i giudici di sorveglianza, che dovranno esaminare vecchie e nuove istanze presentate da persone sottoposte a quella forma di ergastolo.

Anzitutto, dunque, non si faccia dire ai giudici di Strasburgo ciò che non hanno detto. A essere giudicato inumano è stato l’inderogabile automatismo normativo tra il rifiuto di «collaborazione» e l’assoggettamento al regime del «fine pena mai», in quanto tale da avvilire la dignità delle persone, e da spegnere ogni speranza di ritorno a una vita 'diversa', sulla base di una presunzione di permanente pericolosità che non potrebbe definirsi assolutamente incontrovertibile. Ma è la Corte stessa a precisare che dalla sua pronuncia non consegue affatto il riconoscimento di un diritto del detenuto sollevato da quel regime ad essere messo necessariamente in libertà. Né viene svilito il ruolo che le «collaborazioni» (di giustizia) hanno avuto e possono avere tuttora come preziosi strumenti d’indagine.

Indubbiamente esce accentuata la responsabilità dei tribunali di sorveglianza. Senza più lo 'scudo' di quella presunzione assoluta di pericolosità, spetterà loro valutare in concreto – come in ogni altro caso, compresi quelli di ergastolo 'ordinario' – se persista o no la pericolosità del condannato (oggettivamente altissima in radice per la gravità dei crimini commessi), se e quando maturerà il tempo per un’eventuale concessione di questo o quel 'beneficio'. Ma non è affatto detto che quella mancata 'collaborazione' non debba più pesare per nulla. A un automatismo non se ne deve sostituire uno di segno opposto; e, se ce ne fosse bisogno per orientare i giudici, dal Parlamento e magari, già tra pochi giorni, da Palazzo della Consulta potrebbe venire qualche precisa indicazione in tal senso: per esempio, precisandosi esplicitamente che il rifiuto di collaborare, se non può essere di per sé motivo preclusivo a quella concessione, continua però a poter avere rilievo, se del caso anche decisivo, ai fini di una risposta negativa alla richiesta del condannato; e gli accertamenti e le valutazioni, proprio per la caduta di quello scudo, dovranno tendere a essere di particolare rigore. Per tutti noi, l’emersione di una realtà niente affatto marginale (l’«ergastolo ostativo» coinvolge più di mille persone), ma che troppo pochi conoscevano e la svolta impressa dalla Cedu dovrebbero comunque far riflettere parecchio, senza soggiacere all’alternativa tra la condivisione dei truculenti appelli al far 'marcire in galera' e un ingenuo indulgenzialismo senza limiti. La strada la possono indicare proprio i valori della speranza e della dignità che stanno alle base di queste pronunce di Strasburgo. Speranza e dignità da non spegnere in nessuno e anzi da aiutare a risvegliare in chi possa averle smarrite. Speranza e dignità cui si richiama tanto spesso anche papa Francesco, non senza dedurne una contrarietà radicale al «fine pena mai». Speranza e dignità che tuttavia non debbono trasformarsi in fonti di abusi finalizzati al ritorno nel mondo del crimine o addirittura al mantenervi o riconquistarvi posizioni di dominio.

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