Ciò che i cristiani offrono nelle prove dell'epidemie
venerdì 7 gennaio 2022

Forza attrattiva delle comunità solidali fondate sul Vangelo Il modo di affrontare le epidemie da parte dei primi cristiani fu decisivo per contribuire alla diffusione della nuova religione (cfr. Rodney Stark, Ascesa e affermazione del cristianesimo, Lindau 2007). Nel 165 dopo Cristo, durante il regno di Marco Aurelio, l’Impero romano fu colpito da un’epidemia devastante. Molti sospettano si trattasse della prima apparizione del vaiolo in occidente. Durò quindici anni e morì più o meno un quarto o un terzo dell’intera popolazione dell’Impero. E nel 180, a Vienna, anche lo stesso Marco Aurelio. Nel 251 ci fu una nuova epidemia, ugualmente terribile. Questa volta pare fosse dovuta al morbillo.

Non desterebbe meraviglia dal momento che sia il vaiolo sia il morbillo possono avere tassi di mortalità devastanti se, come accadde allora, colpivano una popolazione mai esposta alla malattia. In quella situazione, secondo molti studiosi, il cristianesimo si diffuse grandemente. La ragione principale è che le virtù della carità e dell’amore divennero concrete norme di solidarietà quotidiana. I discepoli di Cristo non soltanto davano più facilmente un senso ultraterreno a quanto accadeva mentre la religione pagana registrava solo la propria sconfitta: avveniva anche che i cristiani fossero più preparati ad affrontare la calamità all’interno della comunità civile. Il cristianesimo, insomma, nella prova si dimostra attraente perché sa offrire spiegazione e conforto non solo per l’al di là, ma anche per il qui e ora. San Cipriano scrive come i padroni stessero vicino agli schiavi, i medici curassero i malati senza timori egoistici e i parenti amassero e soccorressero i consanguinei. In buona sostanza, mentre i pagani, come si era sempre fatto, isolavano i malati abbandonandoli, i cristiani li soccorrevano.

E si comportavano allo stesso modo non solo verso i confratelli della stessa religione ma anche rispetto agli altri. Cristo era venuto per salvare tutti, non c’era più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna (cfr Gal 3,28) e in ragione di ciò i primi cristiani trattavano tutte le persone allo stesso modo. A causa di questa particolare solidarietà gli esperti ci dicono che probabilmente tra i cristiani ci furono tassi di sopravvivenza notevolmente più alti rispetto ai pagani e questo, come ovvio, provocò moltissime conversioni. Ben prima dell’editto di Costantino, accadde cioè che la religione cristiana rivitalizzasse la società spingendo in maniera efficace gli individui a intraprendere azioni collettive: in tal modo il Vangelo di Cristo divenne messaggio di salvezza concreto, vitale e quotidiano. San Dionisio vescovo di Alessandria scriveva: «La maggior parte dei nostri fratelli senza aver alcun riguardo per se stessi, per un accesso di carità e d’amore fraterno (...) visitavano senza preoccupazione gli ammalati, li servivano meravigliosamente, li soccorrevano in Cristo » ( Ibidem, p. 116)

Alla luce di queste considerazioni viene da chiedersi come il nuovo coronavirus e le sue varianti, interpellando il nostro essere credenti, stiano facendo risaltare la dedizione cristiana e umana a cui ci chiama il Papa nell’enciclica Fratelli tutti. Diciotto secoli fa a causa della risposta solidale che i cristiani diedero alle epidemie di vaiolo e morbillo il numero dei discepoli di Cristo crebbe enormemente: quando, speriamo presto, il Covid-19 sarà solo un brutto ricordo, cosa si dirà dei cristiani di questi anni? Risulteranno incisi nelle cronache che si fanno storia anche gli esempi dati dai singoli credenti e dalle nostre comunità o resteranno soprattutto e solo le parole coinvolgenti e la preghiera di papa Francesco? Dai cinque continenti arrivano ogni giorno notizie che raccontano l’impegno della Chiesa nel mondo al tempo della pandemia.

Esse ci parlano di tanti religiosi, religiose, laici e laiche – il conciliare «popolo di Dio» – impegnati al fianco di coloro che soffrono, con un approccio 'globale', che aiutano tutto l’uomo a guarire mediante una sintonia di interventi e di scelte (come quella vaccinale) che non esclude il contributo indispensabile della preghiera. Eppure, l’interrogativo resta. Speriamo che non si debbano attendere diciotto secoli prima di vedere il segno della fede, della speranza e della carità cristiane raccontato anche dai media.

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