giovedì 10 marzo 2011
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Un po’ mette i brividi pensare che in Italia, dal 2015 – una scadenza dietro l’angolo per i tempi della governance aziendale – ai tavoli dei consigli di amministrazione delle società quotate in Borsa e di quelle partecipate dallo Stato, un posto ogni tre sarà occupato da una donna. A chi ha una certa consuetudine con le logiche e le cronache delle designazioni nei Cda risulta difficile pensare che l’aggiunta della variabile «di genere» nel gioco della rappresentanza dei poteri societari, possa rappresentare un elemento di maggiore efficienza.Eppure, senza indulgere al paradosso, è proprio questo il cuore del felice compromesso bipartisan raggiunto ieri al Senato sul provvedimento relativo alle «quote rosa» nei consigli di amministrazione.Come una ventata di aria fresca, la legge di fatto costringe l’universo del comando, un "mercato" a significativa prevalenza maschile, ad accantonare una serie di criteri antichi, consolidati e spesso di comodo, per mettersi alla ricerca, finalmente aperta e seria, di competenze femminili. Un nuovo cherchez la femme,dove la donna non è più il problema, ma la risorsa.Chiamarla rivoluzione non è esagerato.Per l’effetto che il nuovo modo di pensare può avere in tutta la filiera dei passaggi che dall’università porta una ragazza all’ingresso nel mondo del lavoro e poi a doversi confrontare con i farraginosi, complessi e talvolta umilianti meccanismi della carriera. In un contesto culturale nel quale se è già circostanza rara la ricerca del talento, figurarsi l’andarlo a scovare là dove un giorno potrà manifestarsi il 'problema' della maternità ovvero la "grana" della richiesta di conciliazione dei tempi del lavoro con quelli della famiglia.Eccola, allora, la svolta: fissare una quota – poco liberale e poco dignitosa se questo mercato non fosse oggettivamente ostile alle donne –, cioè definire i confini di una riserva, ma per spalancare una prospettiva. Abbattere un muro al vertice, perché alla base possano cadere centinaia di steccati.Chiaro che la necessità di una legge è di per sé indice dell’esistenza di un problema. Basti ricordare che la presenza di donne nei Cda delle quotate a Piazza Affari è ferma al 6%, mentre solo il 12% delle imprese italiane rispetta già il parametro del 30%. Che l’Italia è uno dei Paesi europei con il più basso tasso di occupazione femminile e dove la permanenza delle donne al lavoro crolla dopo la nascita del primo figlio. Tutto questo senza alcun tipo di vantaggio in termini di indici di natalità.I rapporti di causa-effetto sono sempre difficili da sostenere e da provare. Così, non è detto che la scossa di una legge possa riuscire a modificare le cifre del problema e spianare la strada alle aspirazioni di chi si prepara a costruire il proprio futuro familiare e professionale. E non è dimostrato che un’azienda con più donne nei posti chiave possa diventare più produttiva o meglio performante, come argomenta qualcuno. Non è nemmeno sicuro che inoculare una presenza femminile nei Cda conduca automaticamente, come sarebbe auspicabile, a una trasformazione in senso naturalmente "femminile" di talune dinamiche aziendali, a un approccio che comprenda e preveda la scelta-diritto della maternità e della paternità, che determini un cambiamento tangibile nella promozione dei talenti. Più della norma, decisivo sarà il modo con il quale le donne occuperanno quei posti loro riservati, su come sapranno non tradire le aspettative e il mandato morale di centinaia, migliaia di azioniste senza quote.La sfida lanciata dalla legge italiana, una delle prime in Europa a regolare questo ambito, non è da poco. Per oltre 300 imprese si tratta di andare alla ricerca di un migliaio di donne-manager da inserire ai massimi livelli dell’organizzazione in pochi anni.Nell’immaginario collettivo, avanza l’idea che l’impegno, il lavoro, il sacrificio o la rinuncia di una donna, saranno sempre di più il frutto di una scelta autentica.
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