Che tristezza i perdenti «collaborazionisti»
martedì 16 aprile 2019

Lo scandalo della Sanità in Umbria è ancora in evoluzione, sto alle notizie come sono ora, se dovessero attenuarsi o addirittura capovolgersi sarò il primo a rallegrarmene, perché così come sono allarmano. Che molti posti di lavoro negli ospedali venissero assegnati non per merito ma per raccomandazioni, mi riempie di tristezza e di sfiducia. Sì, certo, penso a quelli che meritavano e non hanno avuto. Ma c’è una categoria che mi rattrista di più, ed è quella dei, chiamiamoli così, 'perdenti collaborazionisti'.

Questi mi rattristano perché sono perdenti, e non dovevano esserlo, ma anche e soprattutto perché sono collaborazionisti, cioè non denunciano le astuzie di coloro che truccano i concorsi, o se le denunciano poi corrono subito dai truccatori per informarli della denuncia, in modo che possano preparare le difese. Qui scatta un meccanismo non raro nella mafia, chiamiamola così, normale, anche se la mafia dentro una società non dovrebbe mai essere normale, ma frequentissimo, e per così dire connaturato, nella mafia accademica: il consenso delle vittime.

Non è corruzione. Non è viltà. Non è paura. È qualcosa di più sottile e insidioso. Lo scandalo della Sanità in Umbria lo leggo su molti giornali, e vengono anche fornite intercettazioni, sia sonore (telefonate) che visive (fotografie): si sentono dialoghi in cui qualcuno dice: «Se mi registrano, trovano cinque reati ogni ora». Lo sanno ma non si fermano, e arrivati alla fine si complimentano fra loro: «Abbiamo sistemato tutti i raccomandati, è stato un bijoux». Naturalmente, se hanno sistemato tutti i raccomandati, che magaru non meritavano, vuol dire che son rimasti senza posto i non raccomandati, anche se meritevoli.

E questi denunciano, poi però spesso avvertono i denunciati, affinché possano insabbiare le denunce. Perché? Perché (riporto testualmente da un giornale di ieri) temono «che le loro dichiarazioni siano mal accolte dal sistema di potere che gestisce con sistema non trasparente il sistema sanitario». Puntano insomma a sentirsi approvati dai loro superiori come traguardo morale, se hanno quella approvazione si sentono a posto, se non l’hanno, perché i loro superiori hanno commesso un reato e loro sono testimoni a carico, si sentono in conflitto con se stessi, si pentono, si correggono.

Questo fenomeno, difficile da capire e difficile da spiegare, è normale di certa mafia accademica: tu punti a una cattedra, ti spetta, hai lavorato molto in quella direzione, ma il tuo professore la dà a un altro, tu puoi fare tutto tranne che contraddire il tuo professore, il tuo professore è esperto di Dante o Manzoni, se dà la tua cattedra a un altro è misticamente come se Dante o Manzoni la dessero a quell’altro, quell’altro viene cooptato nell’ordine dei grandi, che è un ordine nel quale si entra solo per cooptazione. È il trionfo del potere e la morte del merito. Chi viene cooptato dal potere finirà per meritare il potere a posteriori, lo eserciterà come se gli spettasse per diritto divino, e così, di passaggio in passaggio, la promozione diventa stabilmente qualcosa che si ottiene a prescindere dal merito.

Avere l’appoggio del potere vuol dire meritare. Chi non ha l’appoggio del potere e non ottiene, ha interesse a cercare subito buoni rapporti col potere, per ottenere domani. Cercare subito buoni rapporti col potere vuol dire fare subito atto di sottomissione a colui che ha appena vinto fregandoti il posto. Nella mafia accademica questa è la regola. A quanto pare, la mafia sanitaria la sta imparando.

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