martedì 27 dicembre 2011
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Conchiglie sonanti, ritmi somali o canti rudi e dolci del Lazio profondo. Arie di sant’Alfonso, o magi che regalano ponchos a Gesù Bambino con melodie in stile andino. Quando cantano gli uomini sono più vicini tra loro. E più vicini al Mistero. Perché cantare si può solo se si dà credito alla gioia che viene. Non occorre essere in pace, no, non occorre essere senza macchia per cantare. Non occorre essere senza debiti (materiali o spirituali). Occorre essere nient’altro che uomini. Una specie strana, cosciente del dolore e abitata dal desiderio della gioia. In piazza san Pietro l’apertura del presepe del Papa è stata salutata dai canti popolari interpretati da un’orchestra speciale guidata da Ambrogio Sparagna, e da un coro di adulti e bambini. Un appuntamento nuovo e insolito a cui ho partecipato con interventi brevi e che mi ha fatto pensare molto. Una ninna nanna composita, un canto dalle viscere d’Italia e dalla carne di ogni pena e di ogni gioia del mondo. Un appuntamento voluto da una madre giornalista che da poco ha perso un figlio amato, e realizzata grazie alla lungimiranza dei responsabili vaticani e dell’Auditorium della Musica di Roma. Quando si canta – e Natale è un tempo di canti – si toglie l’ultima parola alla morte. Alla disperazione. E anche alla crisi. Davanti al presepe, a partire da coloro che per primi furono convocati da Francesco, si sono succedute generazioni di cristiani che hanno conosciuto ogni genere di crisi. Ma che cantano. Perché la dolcissima presenza di Gesù fa tremare di canto l’uomo o la donna che sentono la vita e il dramma che l’attraversa. Chi non canta davanti a Gesù non lo fa per un deficit di fede, per una mole troppo grande di peccato. Nessun peccato ferma il canto. Semmai lo rende profondo come un singhiozzo, vasto come il mare in petto. Se un uomo non canta, è perché non è più presente a se stesso. Perché lo hanno portato via da se stesso. Chi cantava o aveva gli occhi lucidi per i canti a San Pietro non era in preda a un 'delirio' di fede. Né a una commozione facile tipo quella a cui vorrebbero indurci i supermercati con le loro musichette zuccherose. I canti cristiani, veramente cristiani, non sono caramellosi. Possiedono la vita dentro in tutte le dimensioni. Per questo si trasmettono di generazione in generazione. E li può perdere solo una generazione distratta dall’umano. Una generazione distratta a riguardo della vita. Coloro che cantano, che hanno cantato davanti al presepe di piazza San Pietro o davanti a tanti altri presepi nel mondo, non sono esseri umani perfetti, uomini e donne non in crisi. No, noi che cantiamo non siamo persone 'a posto'. Cantiamo proprio per questo. Tirando fuori le parole di canzoni antiche e profonde. Siamo gente che sente tutta la profondità e l’urgenza della vita. Tutta la crisi, tutta la fatica. E tutta la bellezza. Sappiamo che la vita intera stupisce di fronte al dono di Dio. Si canta perché si è contenti per un dono 'smisurato', qualcosa che non si pensava potesse accadere. E che però, se così si può dire, è l’unica cosa che fa al caso nostro. L’unico dono che fa al caso della nostra umanità magnifica e dolente. Sì, solo un Dio che si rivela fa al caso nostro. Di più: solo un Dio che si rivela come un bambino, come una forte e umile presenza da ammirare e seguire. Solo questo fa al caso nostro. Per questo viene da cantare. Non basta, per così dire, aver presente se stessi per cantare. E non basta aver presente solo Dio. Occorre aver assistito a questo misterioso incontro, tra la nostra umanità e la Sua bambina potente divinità. Basta riandare ad ascoltare i canti popolari, quelli cioè che parlano di tutti a tutti. Popolare, infatti, non significa, come qualcuno pensa, basso o volgare. Ma proprio ciò che parla di tutti a tutti. Le canzoni offerte al presepe della piazza centrale della cristianità avevano il sapore di borghi lontani, di notti sperdute, di sapori e spezie diverse e remote. Sono i canti di chi – con la propria umanità ferita e gloriosa di gioie e pene – ha deciso d’essere un personaggio del Presepe, e non di una storia minore. Un mio grande amico diceva che saranno i nostri canti a vincere il nemico. Quello che viene da fuori e quello che viene da dentro. Aveva ragione, aveva proprio ragione.
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