martedì 3 luglio 2012
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Caro Cesare Prandelli, le scriviamo di ritorno da questa «magnifica avventura» che sono stati gli Europei di Polonia-Ucraina 2012. Vorremmo ringraziarla di cuore, per averci dato la possibilità di 'ripulire' – almeno un altro po’ – l’immagine di un Paese, il nostro, che forse è molto meglio di come lo raccontano all’estero e anche di come ce lo raccontiamo, specie quando scende (anzi, scendiamo, e più o meno in 25 milioni), su un campo di calcio. L’Italia salvata dal pallone sarebbe un’esagerazione, ma il movimento legato allo sport più popolare che esista è un po’ lo specchio di un Paese, come le ha detto, rendendole onore ieri sera, il presidente Giorgio Napolitano. E questo nostro Paese, troppo stanco e invecchiato (come dice lei, Cesare) per reggere il passo con gli altri, ha sentito che è arrivato il momento di dare una sterzata. Perciò, dopo la finale di Euro2012 persa con la Spagna, e nonostante il punitivo 4-0 subito dagli azzurri, ci teniamo a dirle che non ci siamo risvegliati da 'perdenti', ma con una rinnovata fiducia nel futuro. Perché le cose possono ancora cambiare e qualcosa sta già cambiando. Un rinascimento italiano è in corso, ed è partito da uno spogliatoio, dove c’è un uomo vero, Prandelli, che usa sempre la ragione e il sentimento. Assieme ai suoi 23 ragazzi, ha deciso di prendere il buono del passato (il calcio prima di tutto come gioco, il sano spirito oratoriale innestato con il miglior professionismo che è basato sull’impegno serio e il sacrificio quotidiano) e proiettarlo in avanti. Non restare ostaggio di un 'catenaccio' che non è solo tattico, ma è storico e mentale, per osare un po’ più in là, facendo leva su quel filo comune che da sempre tiene unito questo popolo di santi, poeti, navigatori e anche di campioni dello sport: la creatività. «Bisogna avere il coraggio di cambiare», lei va ripetendo, e il cambiamento c’è stato e l’hanno visto tutti sul campo. Siamo la seconda forza d’Europa, dietro solo all’Invencible Armada spagnola. Per chi, come noi, non faceva più parte neppure del G8 calcistico, essere arrivati secondi agli Europei è una grande vittoria. Aver riacquistato la sicurezza e l’orgoglio nel sentirsi italiani, grazie alla Nazionale, è un piccolo 'miracolo' che, non a caso, si è realizzato nella spirituale Cracovia di papa Wojtyla. Una Cracovia che ha abbracciato e placato gli animi sconfortati degli azzurri. Quando la Nazionale è atterrata in Polonia, si portava dietro le macchie dei soliti peccati venali (Calcioscommesse) e una sfiducia diffusa, persino da parte del governo. Il premier Monti aveva lanciato la provocazione delle provocazioni: bloccare il campionato di calcio per due-tre anni. Un mese dopo anche lui, il Mario nazionale, è arrivato a Kiev per spingere un altro SuperMario, Balotelli, e compagni alla conquista del secondo titolo europeo. Non ce l’abbiamo fatta, ma per noi questo secondo posto è più prezioso di una vagonata di bund tedeschi (cara Frau Merkel...) e vorremmo condividerlo con i 'fratelli polacchi' (nei nostri inni ci citiamo a vicenda), che, come noi, hanno mostrato all’Europa la faccia migliore di un Paese che cambia e che avanza. La nostra rivoluzione in campo l’abbiamo ritrovata anche nella rinnovata vita sociale, delle sempre più europee, Varsavia, Danzica, Poznan e Breslavia. «Aeroporti nuovi di zecca, strade rimesse a posto (tranne la Cracovia-Varsavia , peccato), ottimi locali, organizzatissimi centri commerciali, bella gioventù poliglotta», quello che ci aveva preannunciato Zibì Boniek (compagno di Prandelli alla Juve con il presidente Uefa Platini), e l’abbiamo in effetti trovato. Sul campo del Cracovia (il club del cuore di papa Wojtyla) il nostro black-italian Mario Balotelli ha perfino ritrovato il sorriso, per l’affetto sincero e disinteressato che gli hanno tributato i bambini polacchi. Una Polonia che ha regalato accoglienza, gioie e vittorie, ma anche intense giornate di riflessione e di 'memoria' (la visita ad Auschwitz rimarrà nella storia della Nazionale). Con Prandelli siamo andati in pellegrinaggio fino al piccolo monastero dei camaldolesi di Bielany, sul Monte d’Argento e da lì al campetto di Wadowice, dove si tuffava, quel portiere dalle grandi mani, il giovane 'Lolek', il futuro Giovanni Paolo II. E allora, se una squadra di calcio, se la sua Nazionale caro Cesare, ha permesso a un intero Paese di vivere tutto questo, vuol dire che dobbiamo continuare a giocare così, senza paura, e tutti insieme. Oggi il calcio azzurro insegna che dalla politica, dalle grandi alle piccole cose di ogni giorno l’Italia può, e sa ancora, vincere.
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