sabato 22 agosto 2015
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La vera generosità è uno scambio dalle conseguenze imprevedibili. È un rischio, perché mescola i nostri bisogni e i nostri desideri con i bisogni e i desideri degli altri. A. Phillips e B. Taylor, Elogio della gentilezza La generosità rimanda a generare. È una virtù non economica, ma essenziale alle imprese. Dipende molto dalla nostra famiglia, ha a fare con la gente attorno a noi, con l’ambiente nel quale cresciamo e impariamo a vivere. La ereditiamo venendo al mondo. E le imprese hanno bisogno della generosità dei lavoratori, ma spesso hanno paura della natura eccedente, della libertà di questa forza. Così la riducono ad altro. E inizia il loro declino. Le imprese e tutte le organizzazioni restano luoghi di vita buona e intera se e fino a quando lasciano vivere virtù non economiche accanto a quelle economico-aziendali. Una coesistenza decisiva ma tutt’altro che semplice, perché chiede ai dirigenti di rinunciare al controllo totale dei comportamenti delle persone, di accettare una componente di imprevedibilità nelle loro azioni, di essere disposti a relativizzare anche l’efficienza, che sta diventando il vero dogma della nuova religione del nostro tempo. La generosità è una di queste virtù non economiche, ma essenziali anche a ogni azienda e istituzione. La radice della generosità si trova nella parola latina genus, generis, un termine che rimanda a stirpe, famiglia, nascita – è questo il primo significato della parola genere. Questa antica etimologia, oggi perduta, ci dice cose importanti sulla generosità. Innanzitutto ci ricorda che la nostra generosità ha molto a che fare con la trasmissione della vita: con la nostra famiglia, con la gente attorno a noi, con l’ambiente nel quale cresciamo e impariamo a vivere. La riceviamo in eredità venendo al mondo. È una dote che ci lasciano i nostri genitori e parenti. La generosità si forma dentro casa. Quella che ci ritroviamo dentro dipende molto dalla generosità dei nostri genitori, da come e quanto si sono amati prima che nascessimo, dalle scelte di vita che hanno fatto e di quelle che fanno mentre noi incominciamo a guardarli. Dalla loro fedeltà, dalla loro ospitalità, dal loro atteggiamento con i poveri, dalla loro disponibilità a "sprecare" tempo per ascoltare e aiutare gli amici, dal loro amore e dalla riconoscenza per i genitori. Questa generosità primaria non è una virtù individuale, ma un dono che entra a far parte della dotazione morale e spirituale di quello che si chiama carattere. È un capitale con cui arriviamo sulla terra, che si è formato prima della nostra nascita e che si alimenta della qualità delle relazioni nei primissimi anni di vita. Dipende anche dalla generosità dei nostri nonni, dei bisnonni, dei vicini di casa, e da quella di molti altri che pur non componendo il mio DNA sono comunque presenti, in modi misteriosi ma realissimi, nella mia generosità (e non generosità). È influenzata dai poeti che hanno nutrito il cuore della mia famiglia. Dalle preghiere della mia gente, dai musicisti che amo e ascolto, dai cantastorie nelle feste di paese, dai discorsi e dalle azioni dei politici, dalle omelie dei predicatori. Dai martiri di tutte le resistenze, da chi ieri ha donato la sua vita per la mia libertà di oggi. Dalle generosità infinite delle donne dei secoli passati (c’è una grande affinità tra donna e generosità), che molte volte hanno messo la fioritura della famiglia a cui hanno dato vita prima della propria – e continuano a farlo. La generosità genera riconoscenza per chi ci ha resi generosi con la sua generosità. Vivere con persone generose ci rende più generosi – proprio come accade con la preghiera, con la musica, con la bellezza…. Coltivare la generosità produce molti più effetti di quelli che riusciamo a vedere e a misurare – e lo stesso accade con la non-generosità nostra e degli altri. Lo stock di generosità di una famiglia, di una comunità, di un popolo è una specie di somma della generosità di ciascuno. Ogni generazione incrementa il valore di questo stock o lo riduce, come sta accadendo oggi in Europa, dove la nostra generazione impoverita di ideali e di passioni grandi sta dilapidando il patrimonio di generosità che ha ereditato. Un Paese che lascia metà dei suoi giovani senza lavoro, non è un paese generoso. La nostra generosità, poi, si riduce invecchiando. Quando si diventa adulti e poi anziani, ci si ritrova naturalmente meno generosi. L’orizzonte futuro diventa improvvisamente finito e prossimo, e così il tempo – che è la prima "moneta" della generosità – diventa più scarso. Non ci basta mai, e non ce n’è più per gli altri. E così per conservare la generosità che abbiamo ereditato e coltivato da giovani c’è bisogno di molto lavoro. Qui la generosità diventa virtù, perché occorrono molto amore e dolore per restare generosi quando gli anni passano. Ma conservarsi generosi è fondamentale se si vuol continuare a generare vita. Generosità e generare sono due parole sorelle, l’una si legge e si spiega assieme all’altra. Solo chi è generoso genera, e la generazione della vita rafforza e alimenta la generosità. Un sintomo del calo della generosità è allora la non-fecondità o sterilità della vita. Quando ci si ritrova, spesso da un momento all’altro, senza creatività ed energia vitale, per sperare di tornare a generare occorre desiderare di essere ancora generosi, in ogni età – il tempo ridonato da una persona ritornata generosa ha un valore infinito. Nelle imprese, che sono semplicemente un brano di vita, c’è spesso molta generosità e quindi generatività. Gli imprenditori sono generosi per vocazione, soprattutto nella prima fase della loro attività, quando l’impresa non è altro che uno scrigno di sogni da realizzare, quando nascono nuove idee ogni giorno, quando si è talmente occupati a far nascere il nuovo che non resta tempo per le avarizie e le meschinità. Le buone imprese, anche quelle economiche e industriali, nascono da persone generose, e continuano a nascere così. Quando un’impresa parte, la generosità di imprenditori, soci, dirigenti, lavoratori non è semplicemente importante, è essenziale per crescere bene. Senza l’entusiasmo e l’eccedenza di tutti rispetto a quanto il contratto di lavoro e i doveri chiedono, quindi senza generosità, le imprese non nascono o non durano; possono nascere uffici per rispondere a bandi o per cogliere qualche opportunità speculativa, ma non le imprese che diventeranno buone e belle. La gioia, "sacramento" di ogni vita generosa, accompagna anche l’inizio delle avventure dei giovani imprenditori e delle vere imprese. Ma quando l’azienda cresce e si trasforma progressivamente in un’organizzazione complessa, burocratica e orientata razionalmente ai profitti, la generosità originaria degli imprenditori si riduce e la vera generosità dei lavoratori non viene più richiesta né incoraggiata. Al suo posto si sviluppa una sottospecie di generosità: quella funzionale agli obiettivi, gestibile, controllabile. E così le si toglie la sua dimensione di eccedenza, di abbondanza, di libertà. La generosità non è efficiente, perché ha un bisogno essenziale di spreco e di ridondanza. E non è incentivabile, perché non risponde alla logica del calcolo. Si comprende allora che una cultura organizzativa costruita attorno all’ideologia dell’incentivo fa appassire nei suoi membri proprio quella dimensione di generosità eccedente che le aveva permesso di essere innovativa e generativa nei tempi migliori. L’impresa diventata istituzione vorrebbe solo quella generosità che rientra nei propri piani industriali, una generosità limitata, addomesticata, ridotta. Ma se la generosità perde lo spreco e l’eccedenza si snatura, diventa altro. Non si può essere generosi "per obiettivi". Chi cerca di normalizzare la generosità depotenziandola delle sue dimensioni meno gestibili e più destabilizzanti non fa altro che combattere e uccidere la generosità stessa. La generosità porta i suoi frutti buoni se viene lasciata libera di generare più frutti di quelli che servono. Ma è proprio la convivenza di frutti "utili" e "inutili" uno dei grandi nemici delle imprese capitalistiche e di tutte le istituzioni burocratiche. Siamo riusciti con la tecnologia a costruire "mandarini" senza i fastidiosi semi; ma se le tecniche manageriali eliminano dalla nostra generosità i "semi" che non piacciono o non servono all’impresa, è la generosità stessa a scomparire. Gli esseri umani danno molto solo se sono liberi di dare tutto. La qualità della vita dentro le nostre organizzazioni dipenderà sempre più dalla capacità dei loro dirigenti di lasciar maturare più frutti di quelli che metteranno sul mercato, di far vivere e crescere anche quelle virtù che non servono all’impresa. Siamo di nuovo arrivati a una nuova declinazione del principale paradosso delle organizzazioni moderne. La crescita delle dimensioni e l’applicazione di tecniche e metodi standardizzati di gestione e controllo mortificano nei lavoratori quelle caratteristiche che l’hanno fatta nascere e di cui l’impresa avrebbe ancora un bisogno vitale per continuare a generare. Questa è una legge che vale per tutte le organizzazioni, ma che è cruciale quando si ha a che fare con imprese e comunità che vivono solo se e solo quando riescono ad avere persone generose messe nelle condizioni di esercitare la loro generosità anche a lavoro. C’è, infine, un aspetto particolarmente delicato nella dinamica della generosità. È quella che possiamo chiamare "castità organizzativa". Generosità non rimanda solo a generare; richiama anche la castità, una parola che solo in apparenza può sembrare in antitesi con le altre due. La persona generosa non "mangia", non consuma le persone belle che vede attorno a sé, ma le lascia profondamente libere. Un’impresa-organizzazione generosa non ambisce al possesso totale del tempo e dell’anima dei suoi lavoratori migliori, neanche di quelli speciali dai quali dipende quasi tutto il proprio successo. Perché sa, o intuisce, che se lo facesse, queste persone perderebbero quelle dimensioni di bellezza che li avevano resi eccellenti e speciali, che per restare vive hanno bisogno di libertà e di eccedenza. Se colgo il fiore bellissimo della vallata alpestre per adornarci il soggiorno, ne ho già decretato la fine. E anche quando ne conservo le radici e lo trapianto nel mio giardino, i colori e il profumo che mi avevano attratto in montagna non li rivedrò mai più, perché erano il frutto spontaneo della generosità dell’intera vallata, di quel sole, di quei minerali, di quell’aria. I giovani migliori delle nostre organizzazioni e comunità restano belli e luminosi finché non vogliamo trapiantarli nel giardino di casa, finché non li trasformiamo in un bene "privato", finché siamo disposti a condividere la loro bellezza con tutti gli abitanti della vallata. Ci sono troppi giovani che appassiscono nelle grandi imprese, e a volte anche in comunità religiose, perché non incontrano quella generosità necessaria a mantenere la loro bellezza eccedente. Per custodire la generosità delle persone c’è bisogno di istituzioni generose, di persone magnanime, di anime più grandi degli obiettivi dell’organizzazione. Siamo abitati da un soffio d’infinito. Tutti i luoghi della vita continuano a fiorire finché quel soffio resta vivo, libero, intero. l.bruni@lumsa.it

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