sabato 3 ottobre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
La fame e la sete assumono molte forme. Ci sono quelle del cibo e dell’acqua, ma ci sono anche quelle di bellezza, di verità, di amore, di preghiera. Si soffre e si muore per carestie di pane e per siccità, ma si soffre e a volte si muore anche per la bruttezza di ospedali e di scuole, perché viviamo in luoghi pieni di menzogna, perché non amiamo e non siamo amati, perché nei momenti duri della vita guardiamo dentro di noi in cerca di risorse spirituali e non vi troviamo più nulla, incapaci di ascoltare e dialogare con lo spirito che ci abita e ci nutre. Carestie e siccità diverse, tutte decisive. Siamo animali simbolici e meta-fisici, per vivere abbiamo bisogno di molti cibi e di diverse acque. È forse questa pluralità di nutrimenti che rende l’"homo sapiens" abitante speciale del pianeta, che può morire di fame in mezzo all’opulenza dei cibi e delle vivande, e può saziarsi e dissetarsi di sostanze invisibili. Se i soli alimenti fossero quelli che saziano e dissetano il nostro corpo, andrebbero sprecati decine di migliaia di anni di storia evolutiva, quando iniziammo a desiderare stelle diverse da quelle notturne, ad ascoltare voci e suoni di montagne e di nubi, a riempire le grotte di disegni e di simboli "inutili" per la caccia e per la pesca, a cantare e magari comporre qualche verso, a guardarci negli occhi e amarci non solo per riprodurci. E quando agli esseri umani vengono tolti o negati i desideri di questi cibi altri, perché ridotti a consumatori e cercatori di merci al posto delle stelle, ritorniamo troppo simili ai nostri comuni antenati, e non cantiamo più il salmo: «Eppure lo hai fatto di poco inferiore a Elohim» (8). Abbiamo troppe fami e seti che nessun ipermercato può saziare, e quando le merci e il denaro riescono a saziare ogni nostra fame e sete, la dignità dell’umanità retrocede e rischia di estinguersi: scambiamo di nuovo un povero per un paio di sandali (Amos), vendiamo un fratello come schiavo ai mercanti in viaggio per l’Egitto (Genesi). L’espansione e la fioritura dell’esistenza umana consiste, paradossalmente, nell’allargare le forme della fame e della sete. Si viene al mondo bramando un seno materno, lo si può lasciare desiderando un latte che solo l’eternità può darci. Ci sono, però, una fame e una sete che non fanno star male né ci fanno morire. Sono quelle che il Vangelo associa addirittura a una forma di felicità, a una beatitudine. Esistono assetati e affamati che sono beati. Sono quelli che hanno "fame e sete della giustizia". La giustizia può essere cibo, può essere acqua. Può nutrire come un pane appena sfornato, può dissetare come una fonte fredda di montagna. Anche gli affamati e gli assetati di giustizia sperimentano una carestia. Anch’essi sono poveri, indigenti. I desideri nascono dalla "assenza delle stelle" ("de-sidera"), ogni eros ha la penuria ("Penia") come genitore. E come accade per ogni fame e sete, anche qui è il corpo il "luogo" dove si sentono e si vivono questa fame e questa sete. La fame e la sete sono "esperienze", non sono idee. Sono parole incarnate, prendono forma nelle nostre carni – come accade con tutte le parole incarnate, non sappiamo che cosa dica la parola "fame" fino alla prima esperienza concreta e cosciente di fame. Ci sono due tipi di fame e sete. Quelle quotidiane, sane e buone, legate al normale ritmo dei pasti, che non procurano alcuna sofferenza e che attendono solo di essere saziate. Ma ci sono anche la fame delle carestie e la sete delle siccità, quelle che milioni di persone ancora sentono e vivono, dove il pranzo che sazia e l’acqua che disseta a sufficienza non arrivano mai, e la fame e la sete sono pane quotidiano. Questa seconda fame non è mai saziata, e la sete non passa mai. C’è una fame e sete di giustizia che tanti, forse tutti, avvertiamo quotidianamente, semplicemente vivendo e coltivando il nostro senso di giustizia. Ma la beatitudine fiorisce durante le carestie e le siccità della giustizia. Ci sono persone che nelle dittature, nei lager e nei gulag, nelle prigioni dove sono finite solo perché povere e indifese , dentro lavori sbagliati e immeritati, riescono a non morire perché si "nutrono" della loro fame e sete di giustizia. Il cuore di questa splendida beatitudine è la "trasformazione" di una mancanza in nutrimento. La giustizia, per il suo essere bene primario alla base di ogni Bene comune, è un bene tutto speciale, perché la sofferenza per la sua assenza diventa pane e acqua. Come nel combattimento tra Ercole e Anteo, più il fortissimo Ercole scaraventava il suo avversario a terra, più questo si risollevava forte, perché Anteo era figlio della terra (Gea). Ercole ignaro di questa figliolanza, nel combatterlo lo rendeva soltanto invincibile. Chi combatte un figlio di questa giustizia, più gliela nega più lo nutre, perché gli aumenta il desiderio di quanto gli viene sottratto, e con esso l’energia e la forza per lottare. Chi combatte per una giusta causa, diventa tanto più forte quanto più cresce l’ingiustizia, la sua energia aumenta insieme alla sete e alla fame di quella giustizia negata. Si muore, invece, durante queste carestie quando perdiamo contatto con il desiderio di giustizia, quando smettiamo di sentire la sua tipica fame e sete. Come nel mito, dove Ercole riesce a uccidere Anteo solo quando lo solleva da terra, staccandolo dalla sorgente della sua forza invisibile e imbattibile. Si esce sconfitti dalle battaglie contro le ingiustizie, strangolati da chi ci nega la giustizia, quando smettiamo di bramarla e di essere affamati di questo pane di vita e assetati di questi fiumi di acqua viva. Quale sazietà promette allora il Vangelo ("... perché saranno saziati"), se il pane di chi cerca la giustizia sta nella sua mancanza? Come si può essere dissetati da un’acqua che disseta perché non c’è ancora? Se restiamo all’interno della nostra vita e della nostra storia (le beatitudini sono parole pronunciate qui e ora, e perderemmo molto, troppo, della loro profezia se le rimandassimo alla fine dei tempi), possiamo comprendere che la sazietà della giustizia nasce proprio "mentre" soffriamo per la sua indigenza. La sazietà che sentiamo quando lottiamo per liberare qualcuno da strutture di ingiustizia – salvare una vittima dell’azzardo, delle mafie, cercare di tirar fuori dalla prigione un carcerato innocente, riscattare un amico entrato in una spirale di debiti senza averne colpa ... – "è già beatitudine". Se le beatitudini non le sentiamo e scopriamo nel mezzo della buona battaglia, non le scopriamo mai, perché è la vita che genera "in diretta" questa forma sublime di felicità. Se non odo la voce che mi dice "beato" "mentre" sento forte la fame e sete di giustizia, non ho più la forza di continuare la lotta, muoio di fame e di sete. È la felicità dentro le sofferenze il primo grande motore della storia dei giusti. Sono gli scarti tra la giustizia che vorremmo e quella che abbiamo, che alimentano i giusti. Ho visto un ragazzo prendere un piccolo bidone di latta da una discarica, farlo diventare la cassa di un violoncello, e suonare Bach. Non tutti quando sentiamo risuonare nel tempio dell’anima la parola "beati" pensiamo che sia un Dio a parlarci; ma se ci sono persone dalle fedi diverse che si alimentano dalle loro stesse lotte per la giustizia – e ce ne sono molte –, allora le voci che ci dicono "beati" sono tante e diverse. È un coro di voci a cantare sulla terra: "beati voi". L’acqua che sazia i giusti è quella della fontana pubblica del paese, che disseta tutti, senza chiederci di conoscere dove sia la sorgente di quell’acqua che ci disseta. La terra dei giusti è bagnata ogni giorno, nutrita dalle tante voci che ci sussurrano dentro: "felice", "beato", "coraggio", "hai fatto bene", "stai combattendo una buona battaglia". Una beatitudine che sazia, disseta, a volte inebria di una gioia diversa ma fortissima. Che si avverte più chiara e forte quando incrociamo gli occhi di altri giusti che lottano accanto a noi. Solo con mille voci diverse tutti i giusti possono sentirsi chiamati "beati". Ai costruttori di Babele è sufficiente una sola lingua, ma nella Pentecoste dei giusti le lingue sono molte, tutte diverse e tutte uguali. Da qui nasce una grande speranza. Nel mondo ci sono molte più beatitudini di quelle che i giusti riescono a chiamare con questo nome. Siamo tutti accompagnati nelle nostre buone battaglie per la giustizia, non siamo soli negli attraversamenti di questi deserti, i nostri cuori sono abitati da molte voci che ci alimentano dicendoci in molti modi "beati". Il cielo, insieme alla rugiada, ci dona una manna che ci nutre tutte le mattine del mondo. Molti ci chiediamo stupiti: "che cos’è?", e non riusciamo a rispondere se i profeti non ce lo spiegano. Ma ciò che veramente conta è che i giusti siano nutriti dentro, che si sentano sazi nell’indigenza, che possano vivere in mezzo alle carestie di giustizia che non finiscono mai – i poveri, e quindi gli affamati e gli assetati di giustizia, li avremo sempre con noi, e con essi avremo sempre le loro beatitudini. Moltitudini di giusti si sentono chiamare nell’anima "beati" anche senza aver mai letto il Vangelo, o quando lo hanno dimenticato. Sarebbe un luogo troppo piccolo un "regno dei cieli" abitato soltanto dai residenti con il passaporto e non anche dai profughi, dai rifugiati, dai migranti. I suoi cieli sarebbero troppo bassi, i suoi orizzonti troppo angusti. Il Regno dei cieli deve essere il regno di tutti i giusti, ognuno con la sua lingua diversa, tutti nutriti dallo stesso cibo, dissetati dalla stessa acqua. «Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, saranno saziati». l.bruni@lumsa.it
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI