mercoledì 16 novembre 2011
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Piazza Affari non veste Prada, volata a Hong Kong. Nemmeno Valentino e Marzotto, il cui addio al listino risale al 2007. Non indossa i gioielli Bulgari, finiti in mani francesi, e ha smarrito pure il marchio Coin. Milano non offre ancora una passerella finanziaria a Dolce & Gabbana, Armani, Ermenegildo Zegna o Max Mara, solo per citare alcune fra le cinquanta griffe del made in Italy invidiate in tutto il mondo che, scegliendo di quotarsi sul listino milanese, porterebbero all’anemica Borsa italiana almeno 28 miliardi di capitali freschi. C’è poco da fare: un settore di eccellenza dell’imprenditoria italiana non sfila sul mercato finanziario. Purtroppo non è l’unico. La nostra Borsa, insomma, non è fashion. Ed è una delle ragioni per cui Piazza Affari rischia di diventare insignificante sul palcoscenico globale.Proprio nel frangente in cui "il mercato" è sul banco degli imputati con l’accusa di speculare sulla crisi del debito, quello che manca oggi all’Italia è un mercato dei capitali degno di tal nome. Tutte insieme le 350 società del nostro listino valgono quanto le sole Apple e Google. Paradossalmente il capitalismo industriale italiano ha bisogno di "più mercato" e non del contrario. Il rischio è sempre quello di considerare, quando la notte è fonda, tutte le vacche nere. Andrebbe invece sempre distinta quella finanza che fa i soldi con i soldi, scommettendo magari al ribasso attraverso i derivati, da un mercato dei capitali che costituisce in essenza una fonte di finanziamento per le imprese. C’è da un lato un sistema ombra che i suoi contratti li fa "al banco" – fuori cioè dalle regole – e vale qualcosa come 16mila miliardi di dollari solo negli Stati Uniti, e dall’altro una piazza finanziaria milanese che opera "dentro le regole" ma capitalizza appena 480 miliardi di dollari a fronte dei 13mila di New York. Questi due volti dei "mercati" non vanno confusi. Quanto più Piazza Affari si assottiglia, tanto meno gli investitori istituzionali la considerano per comprare i suoi titoli e fornire quindi capitale finanziario alle imprese quotate. Basta guardare alla lista dei grandi fondi d’investimento: quelli che hanno realizzato le performance migliori negli ultimi dieci anni hanno investito in India, Cina e America Latina. E quei soldi sono andati alle economie emergenti, abbandonando, prima fra tutte, la piazza milanese e le sue poche imprese quotate. Eppure, quando è più difficile trovare liquidità, la Borsa potrebbe – e dovrebbe – rappresentare una delle alternative disponibili alle imprese per finanziarsi. Nella sua vocazione originaria, infatti, è un volano per la crescita. Una Borsa sana e utilizzata in modo trasparente consente di trasferire risparmio dai soggetti che lo accumulano, soprattutto le famiglie, in Italia fra le più ricche al mondo, ai soggetti che lo richiedono, ovvero le imprese. Il mercato dei capitali è il termostato fra la finanza e l’economia reale. Senza contare che un listino così debole e sottile come quello italiano è destinato a diventare una specie di outlet per i grandi Gruppi internazionali. Gruppi che, con una manciata di milioni, potrebbero sfilarci presto altri gioielli.Certo, vista la tempesta perfetta in corso, sarebbe una follia scegliere di entrare proprio adesso in Borsa. Ma per favorire le quotazioni nell’immediato futuro, quando le acque saranno meno agitate, c’è bisogno di un intervento dall’alto, con una politica economica che incentivi e sostenga le potenziali matricole, e di meno timidezza a livello delle imprese. Il "quarto capitalismo" del Nordest pesa sul Pil per il 9%, ma in Borsa vale appena il 2,4%. Il familismo tradizionale delle aziende in quest’area, di certo evoluta sotto il profilo industriale, incide parecchio: dove l’impresa viene tramandata di padre in figlio, si sconta una tendenza alla conservazione del patrimonio e non al suo sviluppo. Sarebbe quindi utile smussare quella mentalità che fa sentire ancora Piazza Affari lontana culturalmente. E allo stesso tempo distinguere, più in generale, fra un mercato che aiuta le imprese e quel "mercatismo" che rischia invece di distruggerle.
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