Bisogna anche pensare ai professori di domani
mercoledì 8 gennaio 2020

Se con l’approvazione definitiva del cosiddetto e controverso Decreto Scuola (avvenuta nei giorni scorsi) si stabilisce un percorso per la stabilizzazione degli insegnanti precari e dei laureati (con un concorso straordinario per i primi e uno ordinario per i secondi), rimane ancora irrisolto un problema cruciale per il futuro del nostro sistema d’istruzione. E cioè l’iter d’ingresso nella professione docente per i laureati dei prossimi anni: i ragazzi che frequentano oggi l’università. È una cosa grave, perché non c’è nulla che possa scoraggiare un giovane dall’intraprendere un lavoro quanto l’incertezza della strada per accedervi. Ciò a maggior ragione nel caso di una professione come l’insegnamento, ad alta componente 'vocazionale', ma certamente dalle retribuzioni non così motivanti.

Mentre per i docenti della Scuola primaria la formazione iniziale è ormai stabilizzata, il tema interessa oggi gli aspiranti docenti della secondaria (medie e superiori). Per capire lo stato dell’arte, occorre ripercorrere in breve la storia recente. Dopo le esperienze delle Ssis (Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario), dei Tfa ( Tirocini formativi attivi) e dei Pas (Percorsi abilitanti speciali), la legge 107 del 2015 (la cosiddetta 'Buona Scuola') stabiliva che per diventare insegnanti nella secondaria bisognasse accedere al Fit (Formazione iniziale e tirocinio), un percorso triennale (dopo 5 anni di università), al termine del quale si sarebbe entrati in ruolo. Quella proposta non era esente da criticità: per esempio il fatto che nei primi due anni di Fit i tirocinanti, pur lavorando nelle scuole (oltre a continuare una formazione di tipo universitario) non sarebbero stati pagati con lo stipendio intero, che sarebbe invece scattato solo al terzo anno (corrispondente all’attuale 'anno di prova' dei neo-immessi in ruolo). È anche vero, però, che chi fosse entrato nel Fit avrebbe avuto la certezza di un contratto a tempo indeterminato, sebbene soltanto 3 anni più tardi. Ma la cosa importante era l’affermazione di un principio: che per insegnare serve una formazione adeguata, approfondita, strutturata, non episodica né improvvisata né burocratica: siamo tutti d’accordo - o no? - che insegnare è un lavoro delicato, perché ai docenti vengono affidati i ragazzi, cioè il bene più prezioso?

Il governo 'giallo-verde' (Conte 1) ha però bloccato il Fit, che quindi non è mai partito. Oggi ci si chiede dunque che cosa accadrà. Le proposte sul campo sono diverse. Per esempio l’Anfis (Associazione nazionale formatori insegnanti supervisori) ha avanzato la proposta di un tirocinio annuale, dopo la conclusione degli studi universitari, prima di poter accedere ai concorsi per il ruolo. Si tratta, insomma, di una mediazione tra il nulla di oggi e l’idea del percorso triennale del Fit, che forse era effettivamente un po’ troppo lungo (6 anni di università e poi altri 3 di tirocinio). Ma si potrebbe anche pensare a un’altra ipotesi: quella di una laurea specialistica di 2 anni (dopo i 3 della laurea di primo livello) specificamente indirizzata all’insegnamento, nell’ambito della quale, oltre a un approfondimento dei contenuti disciplinari dello specifico indirizzo, fosse previsto un certo numero di crediti formativi legati ad esperienze di tirocinio nelle scuole. Sappiamo però che il mondo accademico tende a resistere a questa prospettiva, vedendo di cattivo occhio una riduzione dei crediti degli insegnamenti attualmente impartiti nei corsi di laurea specialistica per far spazio ad altro.

Insomma, la questione non è semplice e il dibattito è aperto. Una cosa, però, è certa: la politica non può continuare a ignorare una questione di primaria importanza per la Scuola e per il Paese. È giusto risolvere il nodo del precariato, ma affrontare il capitolo della formazione iniziale non è in contrasto con l’obiettivo di stabilizzare (speriamo in modo giusto ed efficace) chi insegna ormai da diversi anni con contratti a tempo determinato. I cosiddetti 'precari storici' si sono messi alla prova sul campo, acquisendo un’esperienza che va riconosciuta e valorizzata. Ma i giovani che nei prossimi anni si laureeranno e vorranno insegnare hanno diritto a sapere il più presto possibile che cosa li aspetta.

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