venerdì 10 giugno 2011
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Parlare di “forzatura” del diritto internazionale sarebbe troppo poco, in merito alla doppia decisione presa nella notte italiana di mercoledì con la quale il Supremo Tribunale federale del Brasile ha negato l’estradizione in Italia di Cesare Battisti, l’ex–terrorista rosso condannato nel nostro Paese a quattro ergastoli per altrettanti omicidi. Sembra invece più calzante parlare di “violazione”, da parte del massimo organo giurisdizionale e di garanzia brasiliano (assomma infatti funzioni paragonabili a quelle della Corte di Cassazione e della Consulta italiane), quanto meno del trattato italo-brasiliano di cooperazione giudiziaria sottoscritto nel 1989.Bene, perciò, fa il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a «deplorare» con forza quanto accaduto e a dare il suo autorevole sostegno alle rivendicazioni del governo Berlusconi. E bene farà il governo se ricorrerà alla Corte Internazionale di Giustizia, che ha fra le sue competenze proprio quella di dirimere le controversie tra Stati aderenti all’Onu circa l’applicazione e l’interpretazione del diritto internazionale. Nella speranza che stavolta ci sia un giudice all’Aja, visto che non c’è stato a Brasilia.I giudici d’oltreoceano hanno infatti dato l’impressione di rinunciare alla propria autonomia in favore dell’autorità dell’esecutivo. Il loro primo passo è stato quello di escludere che uno Stato straniero (quello italiano, nella fattispecie) possa contestare davanti al Supremo Tribunale federale (Stf) una decisione del presidente della Repubblica brasiliana. Ma è da notare che Luis Inacio Lula da Silva, per altro poche ore prima della scadenza del suo mandato, aveva ribaltato le conclusioni dello stesso Stf. Il quale, allora, aveva deciso per l’estradizione di Battisti. E adesso non ha osato contraddire il potere politico. Anzi, con la seconda e definitiva sentenza, la cui conseguenza è stata l’immediata scarcerazione del latitante, ha certificato che l’allora capo dello Stato non ha violato il trattato di estradizione in vigore tra Italia e Brasile.Eppure la violazione appare palese. Ma l’aspetto più «umiliante», prendiamo in prestito il termine dall’Associazione vittime del terrorismo, è che l’ex–presidente motivò il diniego all’estradizione affermando che Battisti avrebbe rischiato di essere sottoposto in Italia «ad atti persecutori o discriminatori».Ecco, qui la questione investe il prestigio, l’onorabilità e la qualità stessa della giustizia italiana. La quale è sì difettosa (e non poco), a causa delle sue lungaggini e lacune, talvolta anche per colpa del protagonismo e delle forzature operate da alcuni magistrati, ma non certo perché di norma discrimina e perseguita gli imputati e i condannati. Il sistema di garanzie, nel suo complesso, resta in piedi e per certi versi è esemplare e persino generoso.Si dirà che quelle di Lula sono soltanto affermazioni pretestuose, utili ad ammantare di umanitarismo una scelta totalmente politica. Sul punto perfino i litigiosi partiti di casa nostra sono tutti d’accordo. Questa dolorosa vicenda, tuttavia, dovrebbe indurre i rappresentanti delle nostre istituzioni alla massima prudenza quando si parla di giustizia italiana in sedi internazionali. E a riflettere su come operano le magistrature di altri Paesi.Battisti, per esempio, dopo aver beneficiato in Francia della “dottrina Mitterrand” – che da latitante gli ha consentito non solo di trovare rifugio oltralpe ma pure di affermarsi come apprezzato scrittore di gialli – e avere poi approfittato di alcune “bizzarre” procedure giuridiche che gli propiziarono la fuga dopo l’arresto di Parigi nel 2004, ha ora di che ringraziare anche le massime autorità giudiziarie e politiche del Brasile. Ma le ragioni delle vittime e dell’Italia sono buone, e l’ingiustizia è assai grave. Va sanata.
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