venerdì 29 ottobre 2010
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Non c’è condanna a morte che non risulti oscena e insopportabile. Quale che sia la forma con cui viene eseguita. Ma il brutale, terribile assassinio di due giovani donne per le strade della cittadina somala di Beledweyne da parte delle bande islamiche radicali al-shabaab è qualcosa di ancor più ripugnante. Trascinate le ragazze per strada, obbligati gli abitanti ad assistere, i miliziani che poi sparano alla schiena delle sventurate. La loro colpa, quelle di essere «nemiche dell’islam e spie». Inutile chiedersi come possano esserlo due giovani di 15 e 18 anni: nel loro violento fanatismo le donne sono un bersaglio fin troppo facile. Soprattutto se non si piegano alla visione distorta e dogmatica della giustizia coranica che queste bande cercano di imporre in una parte di Africa già così insanguinata. Chissà se questa barbara esecuzione scuoterà le coscienze di una comunità internazionale come intorpidita dinanzi a una litania infinita di morte, violenza e prevaricazione. C’è da dubitarne: dopo il ritiro delle forze schierate per la missione di assistenza "Restore Hope", nell’ormai lontano 1993, vi è stata una generale riluttanza a intervenire nel Corno d’Africa. Distratti da crisi internazionali ben più coinvolgenti – nel grande arco di crisi che va da Israele all’Afghanistan –, logorati da una recessione che costringe a tagli sociali dolorosi, i Paesi occidentali non hanno alcuna voglia di impegnarsi in scenari remoti come questo. Il risultato è stato quello di un progressivo deterioramento del quadro di sicurezza nella regione. Ormai i ribelli al-Shabaab spadroneggiano in tutta la Somalia centro-meridionale, imponendo con rigore wahhabita i precetti della legge islamica: mutilazioni e pene corporali, lapidazioni, ma anche matrimoni forzati con i miliziani, cui le donne meno difese della società somala sono costrette. Né le truppe del governo regolare, né le forze militari dell’Unione africana che operano sotto l’egida delle Nazioni Unite, sembrano in grado di sconfiggere i ribelli, peraltro numericamente limitati. Anzi, vi sono segnali crescenti di un aumento della loro capacità operativa anche fuori i confini della Somalia, verso il Kenya e tutta la fascia dell’Africa centrale, segnata da una cronica violenza e instabilità. Difficile capire se si tratti solo di incursioni da parte dei miliziani islamici somali, i quali da tempo considerano come nemico il governo keniota, oppure sia la dimostrazione di una capacità attrattiva delle forze al-shabaab, secondo quell’impasto di tribalismo, fanatismo religioso, disagio socio-economico e dissenso politico che ha già travolto più di un Paese islamico in questi ultimi decenni. Del resto, il loro modello insurrezionale è legato al jihadismo qaedista, una sorta di franchising del terrore, che punta sulla brutale semplicità della propria ideologia e sulla violenza delle proprie azioni per imporsi all’attenzione tanto delle popolazioni sul cui territorio opera quanto dei media internazionali. La vicinanza della Somalia con la penisola arabica, e con uno Yemen che sembra sempre più collegato a questa fascia del terrore, rende il quadro maggiormente preoccupante. Abbiamo già imparato che nulla rende più forti al-Qaeda e i gruppi che a essa si richiamano della percezione di un successo sul campo. È questa percezione che attrae nuovi militanti e favorisce la nascita di cellule imitative, con il rischio di un peggioramento delle condizioni di sicurezza in tutto il Corno d’Africa. A quel punto, volente o nolente, la comunità internazionale non potrà evitare un coinvolgimento ben più pericoloso e oneroso di quello attuale. E quindi tempo, anche nel nostro interesse, di prestare subito rinnovata e più consistente attenzione a quanto avviene laggiù e alle sofferenze di quanti subiscono il fanatismo jihadista.
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