giovedì 5 novembre 2015
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Caro direttore,
mi permetta di esprimere il mio dissenso sulla linea adottata da “Avvenire” in ordine alla prima guerra mondiale. Per varie volte nella sezione Agorà è stato presentato il fatto della «decimazione». È vero, centinaia e centinaia di soldati italiani sono stati fucilati in base al codice di guerra allora vigente. Ed è dunque giusto ricordare: «L’Italia dei poveri messa al muro». Numerosi storici sono stati interpellati su questo triste fatto che è stato praticato, e in misura anche maggiore, da tutti gli Stati europei. L’intento degli articoli era dimostrare come questa, come tutte le guerre, sia stata un’«inutile strage», ma non può mettere a tacere il fatto che la guerra all’Impero austro-ungarico venne dichiarata dopo vivissimi confronti avvenuti nel Parlamento e nelle piazze. Il fatto determinante è che un popolo si è trovato in guerra e i suoi figli sono stati mandati a morire nelle trincee del Carso e sulle Alpi, ma con la convinzione preminente di combattere l’ultima guerra del Risorgimento, per liberare Trento e Trieste. La gran parte dei combattenti ha creduto di servire il nostro Paese, lasciando sul campo centinaia di migliaia di caduti. Il loro stato d’animo è riassunto in una scritta lasciata dagli Alpini sulle Tofane, tra le Dolomiti Ampezzane: «Tutti avevano la faccia del Cristo nella livida aureola dell’elmetto, tutti portavano l’insegna del supplizio nella croce della baionetta, e nelle tasche il pane dell’ultima cena e nella gola il pianto dell’ultimo addio». Per questo non dobbiamo dimenticarli.
Giampaolo Zapparoli - Mantova
Certo che le permetto di esprimere il suo dissenso, gentile signor Zapparoli. Ma mi chiedo rispetto a che cosa. Lei è d’accordo con noi sulla doverosità del ricordo dell’«Italia dei poveri messa al muro», della riflessione e in molti casi del risarcimento almeno morale nei confronti delle centinaia di ingiustamente fucilati. “Avvenire” – in particolare dapprima con gli articoli e le interviste di Giovanni Grasso, quindi con quelli di Angelo Picariello – si è impegnato per questo. E forse un gesto solenne finalmente ci sarà. Fin qui vedo che siamo d’accordo. Questo significa sottrarre spazio alla memoria dei caduti sui fronti della grande guerra 1915-18? Mi meraviglia che lei, lettore attento, lo pensi. «Ma nessun nome manca» era il titolo del mio editoriale di domenica 23 maggio, che chiamava alla memoria senza rimozioni e che scelsi di pubblicare sulla speciale “copertina” pensata per ricordare l’ingresso dell’Italia nel vortice di un immane conflitto che avrebbe portato in seno l’orrore successivo e che riassumeva ed enfatizzava la ferocia di quelli dei secoli precedenti. Benedetto XV definì, quella volta per tutte, lo scontro fratricida «l’inutile strage». Un’immagine che, quel giorno, non ci siamo limitati a citare (pur a caratteri cubitali) ma abbiamo accompagnato con numeri agghiaccianti: i 37 milioni di morti, feriti e mutilati, i morti austriaci, e primi tra tutti quelli italiani. Sconvolgenti questi ultimi nel testimoniare un dato mai abbastanza sottolineato e cioè che militari (651mila) e civili (589mila) avevano pagato già un secolo fa un prezzo quasi uguale alla follia bellica. Non manca, non deve mancare nessun nome, caro e gentile amico. Per quanto mi riguarda, ed è condizione comune a quasi tutti gli italiani, neanche i nomi dei miei due prozii caduti al fronte, di un mio nonno ucciso inesorabilmente e troppo presto dalle unghiate della guerra di trincea subite in quegli anni. Nessuna smemoratezza delle vittime. E nessuna delle cause. Perché smetta di accadere. Perché finisca certa retorica non la commozione e la gratitudine per il coraggio e la sofferenza. Perché la pace nella giustizia e nella libertà sia il «servizio» a cui siamo chiamati e non la guerra. Io credo, gentile lettore, che non siamo poi così in disaccordo.
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