Autonomia differenziata: non si tratta di frenare i forti ma di rafforzare i deboli
martedì 7 febbraio 2023

Accosto queste serie riflessioni arrivate, da due lettori attenti e partecipi, perché aiutano capire la delicatezza del passaggio in cui siamo impegnati a seguito della determinazione dell’attuale governo di destracentro ad attuare una parte della riforma semi-federale che il centrosinistra varò oltre vent’anni fa, nel 2001, e che un referendum popolare confermò con il voto di poco più di un terzo degli aventi diritto . Personalmente sono un fautore di autonomie territoriali ben temperate, secondo quel principio di sussidiarietà che il direttore Zapparoli (da uomo di scuola) richiama con efficacia, e questo significa che sono anche un sostenitore del potere-dovere dello Stato di garantire in ogni parte del nostro Paese i diritti basilari dei cittadini, secondo quel principio di equità e di uguaglianza sostanziale che il dottor Costanza (da uomo di scienza medica) rivendica con passione. È questo, del resto, l’equilibrio saggiamente disegnato dalla nostra Costituzione e compromesso da non esaltanti, qualche volta mediocri e altre volte addirittura pessime, attuazioni sia del regionalismo sia della già citata riforma Bassanini. Una situazione che sarebbe assurdo considerare ottimale, uno status quo da difendere e che ora viene messa in discussione dalla riforma Calderoli. Un passaggio delicato, che rappresenta un rischio e un’opportunità: il rischio niente affatto teorico è quello di aumentare distanze e ingiustizie tra le diverse parti dell’Italia, l’opportunità da cogliere (e non è scontato) è quella di stabilire e finanziare livelli essenziali delle prestazioni (art. 120 Cost) decenti a Nord come a Sud e dotati di adeguate risorse finanziarie. Un passo necessario, addirittura indispensabile, nella giusta direzione è quello di smetterla con gli slogan da parte di alcuni politici e amministratori all’insegna del “lasciateci i nostri quattrini, noi siamo più bravi a spenderli”. Obiettivo comune dev’essere, insisto a citare i due settori che forse definiscono di più la qualità di una società civile: istruzione e salute, investire le risorse sufficienti per costruire un sistema sanitario e un sistema formativo “di tutti e per tutti”. Mi limito, infine, a ribadire una sottolineatura che non solo per me è assai importante e che tiene conto anche delle attese nelle Regioni che più di tutte hanno reclamato maggiore autonomia finanziaria, e cioè Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Il punto, oggi, non è di impedire a chi sta già facendo bene (o benino) di fare meglio nell’erogare servizi pubblici, ma di non farlo a spese delle parti più deboli del Paese, deprimendole ulteriormente. Non c’è da mortificare i forti, ma da rafforzare i deboli, facendo più forte l’intera comunità nazionale. Il grido di allarme che viene dalle «aree interne» del Sud e del Nord, e che i vescovi di quei territori hanno saputo interpretare, va ascoltato e ben compreso.


Gentile direttore, “Avvenire” sta affrontando da tempo il tema dell’autonomia differenziata, lo scorso 1° febbraio anche con un approfondimento sul rischio di una scuola a più velocità. Intanto è stata varata, a cura del ministro Calderoli, una proposta di legge del governo Meloni che ha indubbie potenzialità oltre che rischi. Per questo credo anch’io che sia necessario analisi attenta e serio confronto sul pericolo di dividere l’Italia in spezzoni diversificati, a più velocità. È vero che non si sono ancora definiti i Livelli essenziali di prestazioni, i famosi Lep, e questo va fatto, pongo però sin d’ora una domanda: perché tutti i servizi prestati ai cittadini debbono essere dello stesso livello, imponendo che chi può fare meglio si debba fermare per non offrire disparità? L’autonomia differenziata non richiede maggiori risorse, ma che l’organizzazione dei servizi sia affidata alle Regioni, con gli stessi importi che a ciascuna sono attribuiti dallo Stato. Attenzione a non far valere un obiezione che porterebbe a evitare un miglioramento per il timore di aumentare i divari. Al di sotto di tutto sta il principio di sussidiarietà contenuto nell’enciclica “Quadragesimo Anno” secondo il quale «La società di ordine superiore non deve usurpare le prerogative delle società di ordine inferiore privandola delle sue competenze, ma deve sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali in vista del bene comune». Io credo che la parte più complessa della riforma stia proprio in «aiutarla a coordinare la sua azione in vista del bene comune». Qui si deve lavorare e non fermando chi può fare più e meglio, per aiutare le Regioni che più ne hanno bisogno.

Giampaolo Zapparoli Mantova


Gentile direttore, tutti dovrebbero chiedersi quanto costa una risonanza magnetica, una Tac total body, l’alimentazione assistita... e farebbero bene a calarsi, solo per un attimo, nelle sensazioni che vive un ammalato oppure un figlio preoccupato per un genitore, o una madre per un suo bambino di fronte alle necessità impellenti di dover fare esami o controlli negati per motivi economici o strutturali e ritrovarsi con lunghissimi tempi di attesa. Tutto questo, per chi vive qui nella mia Campania, potrebbe perfino peggiorare con l'avvento dell'autonomia differenziata. L’erogazione e la ripartizione dei fondi del Sistema sanitario avvengono in Italia in base a caratteristiche puramente anagrafiche (essendo la Regione più giovane, in Campania vengono stanziate meno quote pro-capite) e non in considerazione di caratteristiche epidemiologiche, come i tassi di mortalità e di ospedalizzazione, che nei nostri territori sono enormemente aumentati per motivazioni sociali e per le piaghe dell'inquinamento ambientale. In altre parole, un campano percepisce, per l'assistenza sanitaria, meno soldi rispetto a un lombardo, il che significa meno risorse economiche per la prevenzione primaria e l’assistenza-presa in carico (personale, infermieri, medici, tetti di spesa diagnostica, posti letto in ospedale, attrezzature, acquisto di farmaci, ecc.), innescando un circolo vizioso che fa aumentare notevolmente il divario tra Nord e Sud. E qui avviene il paradosso: in questa situazione, con i soldi che periodicamente si esauriscono prima del tempo, spesso, per farsi curare, i malati del Meridione emigrano nelle strutture e negli ospedali del Nord, finendo per arricchire ancora di più quelle strutture situate a tanti chilometri di distanza dai loro territori! In altre parole, parte delle minori risorse ricevute, noi del Sud le trasferiamo ai nostri fratelli del Nord, che già di per sé ricevono più risorse di noi. Ecco perché noi medici abbiamo il dovere di denunciare che di questo passo, per le fasce deboli, sarà sempre più difficile curarsi e curarsi a casa propria. Eppure (art. 32 Cost.), «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».

Luigi Costanzo, medico Frattamaggiore (Na)

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