giovedì 6 agosto 2015
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Eco mai del tutto spenta di pregiudizi millenari, la malattia recata con sé dalla stessa vita come un gravoso bagaglio a mano diventa per chi la patisce come un marchio di infamia, quasi fosse una colpa indecifrabile che costringe a vivere nel nascondimento e nella vergogna. Trarre alla luce queste situazioni di sofferenza e solitudine è dunque uno sforzo che richiede anzitutto la determinazione di sovvertire luoghi comuni associati alla non conoscenza di cause profonde, natura reale, cure possibili. I 'lebbrosi' dei nostri giorni, che insieme alle famiglie scontano un’emarginazione dura e sempre più iniqua, sono i pazienti vegetativi, chi è colpito da malattie rare e invalidanti, le persone Down, i non più autosufficienti, le vittime della Sla e delle numerose patologie neurodegenerative. E coloro che la legge approvata ieri al Senato definisce «persone con disturbi dello spettro autistico». Il varo definitivo è avvenuto direttamente in Commissione, senza passare dall’aula, con un largo sostegno delle forze politiche, al termine di una tessitura paziente e tenace: è il segno atteso, per quanto limitato, di una consapevolezza delle ferite vere e dei diritti realmente mancanti che a tratti la politica mostra di ritrovare, come in un soprassalto di realismo e dignità. Perché è a imparare la lezione della realtà e di ciò che spetta ai malati – a tutti i malati – in quanto persone che occorre disporsi per riuscire a rischiarare una volta per tutte le zone oscure nelle quali la malattia amplifica i suoi effetti diventando stigma inesorabile, più grave quando nasconde ancora il suo mistero agli occhi della scienza. E l’autismo è ben lungi dall’aver svelato il proprio codice di accesso, rendendo tuttora inestricabile l’intreccio tra genetica, psichiatria, medicina, pedagogia, assistenza e integrazione sociale. Il paziente autistico – definizione sommaria, trattandosi di una categoria con infinite sfumature – è un enigma che chiede di essere accolto per poi disporsi a decifrarlo con pazienza e tatto infiniti, e con l’amore che li origina. Ne sanno qualcosa i genitori e quanti – come dice la legge – «hanno in carico» gli autistici, avendo ben chiaro che si tratta di accompagnare persone umane a trovare il proprio passo nella vita, ben oltre l’infanzia che pareva sinora la frontiera non oltre la quale sarebbe possibile tentare qualcosa. Proprio invitando la collettività ad aprire gli occhi e sollevare lo sguardo su questo orizzonte più largo la legge mostra il suo merito maggiore, insieme alla sottolineatura che si tratta di lavorare tutti a un «inserimento nella vita sociale» dei pazienti senza lasciarli più nel limbo delle disabilità commiserate e neglette. Prima ancora che nella lettera del testo, è però dentro l’esteso impegno – di famiglie, associazioni, ricercatori, parlamentari più sensibili – grazie al quale si è giunti a varare la nuova norma che va letto il messaggio della legge: a spezzare per davvero le catene di un’antica maledizione che tiene in ostaggio chi soffre l’autismo nella carne o nella propria casa può essere solo la solidarietà. Nessuno mai deve restare solo con il fardello di una malattia come compagna di vita. Anche una legge pur priva di vere disponibilità finanziarie – limite inesorabile e giustamente criticato del provvedimento, che all’articolo 3 prende atto «degli equilibri programmati di finanza pubblica» – è però un importante segnale di condivisione dentro un deserto di individualismi urlati. I sei articoli del testo disgregano alibi sedimentati per l’indifferenza e il cinismo efficientista che giudica le persone col metro della loro capacità di essere all’altezza di attese e paradigmi. Ora verso le persone autistiche c’è una mano aperta: va afferrata subito, perché si possa trasformare in un abbraccio.
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