Un attacco senza precedenti. E il rischio escalation che ora va scongiurato
domenica 14 aprile 2024

Un attacco senza precedenti dal territorio iraniano contro Israele e nello stesso tempo un’operazione annunciata perché potesse venire almeno in gran parte contrastata. La rappresaglia di Teheran per l’uccisione nel proprio consolato a Damasco del generale Mohammad Reza Zahedi, con un missile di Tel Aviv, segna in ogni caso una svolta nel conflitto mediorientale e apre scenari di una peggiore escalation.

Dal punto di vista militare, i droni, i missili da crociera e balistici impiegati nell’operazione sono armamenti che il sistema di difesa “Iron Dome” israeliano in combinazione con le forze aeree di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna può contrastare abbastanza agevolmente, come si è visto nella notte tra sabato e domenica. Tuttavia, non è chiaro di quale potenza di fuoco potrebbe disporre l’Iran se volesse puntare a creare danni maggiori sul territorio nemico.

Parlare di operazione “simbolica” è comunque improprio. Dal punto di vista politico, perché significa minimizzare un atto di guerra massiccio contro Israele, che avrebbe potuto provocare migliaia di vittime quando non fosse stato intercettato efficacemente. Se una persona indossa un giubbotto antiproiettile, spararle addosso non diminuisce la gravità del gesto né attenua le responsabilità penali.

Dal punto di vista bellico, Teheran è certamente in grado di attuare raid più insidiosi, magari da più punti nella regione, coinvolgendo anche basi in Siria, Libano, Iraq e Yemen e, quindi, dando meno tempo per l’intercettazione. La minaccia per Israele rimane pertanto assai concreta, seppure il “test” difensivo sia stato completamente positivo. Non a caso il presidente Usa Joe Biden ha parlato di una “vittoria”. A favore c’è anche da registrare l’efficacia dell’intelligence americana, che ancora una volta ha previsto con grande precisione le mosse militari di Paesi ostili.

C’è adesso da chiedersi se gli ayatollah volevano soltanto un’azione “di immagine” o la loro strategia è più complessa. Sicuramente, dovevano mostrare che sono determinati a reagire a ogni colpo subito e i festeggiamenti nelle piazze durante la notte fanno parte di questa macabra coreografia. Ma ci si può anche domandare se avessero messo nel conto un fallimento totale della rappresaglia in termini di danni inflitti, cosa che può implicare un messaggio di impotenza. E un regime che si scopre più debole di quanto pensava, soprattutto con le turbolenze interne di una società che non è graniticamente stretta nell’appoggio alla leadership islamica, può essere indotto a mosse non lucide o addirittura azzardate.

Un altro elemento significativo della notte di combattimenti nei cieli è stato l’apparente ruolo di supporto di Giordania e Arabia Saudita nel contrasto dell’attacco iraniano. Una scelta di campo chiara dei governi sunniti che restano determinati a isolare lo Stato sciita malgrado la crisi di Gaza che avrebbe potuto compromettere i rapporti di Amman e Riad con Tel Aviv a causa delle decine di migliaia di vittime palestinesi e della conseguente rabbia delle piazze musulmane.

Il premier Benjamin Netanyahu incassa un successo militare, avendo dimostrato di potere tutelare il proprio territorio, anche grazie al sostegno – d’acciaio lo ha definito Biden – degli Stati Uniti, nel momento in cui Israele finisce sotto attacco, sebbene ultimamente i rapporti politici si siano raffreddati a causa dell’uso eccessivo della forza da parte dell’esercito con la stella di Davide nella Striscia di Gaza.

Non si dirada tuttavia la drammatica incognita sulle mosse delle prossime ore. Israele vorrà rispondere a sua volta? E in che misura? Washington ha chiarito che non appoggerà un’ulteriore rappresaglia contro Teheran. Tenterà, anzi, di scoraggiarla, sapendo che dopo sarebbe più difficile sterilizzarne gli effetti (come invece si può fare dopo l’ondata di missili della notte). Gli altri grandi attori internazionali, dalla Russia alla Cina, per ora resteranno alla finestra, anche se non è un mistero che la crisi mediorientale favorisca le loro ambizioni di indebolire e distrarre l’Occidente, soprattutto per quanto concerne il conflitto in Ucraina. E, quindi, non agiranno con soverchia energia per indurre alla moderazione gli ayatollah (che riforniscono gli arsenali di Mosca poi scaricati contro Kiev per produrre morte e devastazione).

Servono urgentemente molto sangue freddo e capacità diplomatica per scongiurare l’apertura di un conflitto diretto. Sarà più difficile aspettarsi passi indietro di Israele sui territori palestinesi, così come nella postura aggressiva di Netanyahu, che potrebbe trovare anche maggiore coesione e appoggio interno di fronte a un pericolo esistenziale come quello che l’Iran pone a Israele e ha mostrato di essere disposto a mettere in pratica. L’Europa, che non può sottrarsi al compito di sostenere Tel Aviv, deve nello stesso tempo trovare la via per rimettere in moto un dialogo politico che eviti il ricorso massiccio alle armi. Una pace giusta è quella che garantisce sicurezza allo Stato ebraico in un contesto di convivenza con gli altri popoli della regione. Un compito per tutti, difficile quanto necessario.


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