venerdì 22 febbraio 2019
Maxi sconti di tasse in cambio di lavoro? Il rifiuto della Grande Mela fa discutere. Sotto accusa la prassi dei «ricatti» aziendali Una svolta che sta cambiando la politica
Il colosso di Seattle ha deciso di non costruire più il suo nuovo quartier generale dopo che il Comune, i sindacati e gruppi di cittadini hanno chiesto di sostenere progetti di sviluppo nella comunità Molti politici hanno intuito che in parte dell’elettorato sta crescendo l’intolleranza per lo strapotere delle grandi multinazionali

Il colosso di Seattle ha deciso di non costruire più il suo nuovo quartier generale dopo che il Comune, i sindacati e gruppi di cittadini hanno chiesto di sostenere progetti di sviluppo nella comunità Molti politici hanno intuito che in parte dell’elettorato sta crescendo l’intolleranza per lo strapotere delle grandi multinazionali

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Un bambino capriccioso che prende la palla e scappa perché non gli piacciono le regole del gioco. Un bullo che punisce chi viola i suoi diktat. Un Robin Hood al contrario che va a estorcere denaro a contribuenti meno noiosi. Il gesto di Amazon, che ha improvvisamente annunciato di non voler più costruire un quartier generale a New York dopo che il Comune, i sindacati e gruppi di cittadini le hanno chiesto di sostenere progetti di sviluppo concreti nella comunità che l’avrebbe ospitata e che le ha offerto tre miliardi di dollari di sgravi fiscali, è stato descritto in termini poco lusinghieri dai media americani. Ma non sono mancati neanche i commentatori che hanno biasimato il sindaco della Grande Mela, il governatore dello Stato e molti attivisti per aver gettato alle ortiche (o 'ucciso', secondo alcuni) un’opportunità d’oro di crescita. Le reazioni sono state forti, ed è comprensibile. È la prima volta che un’azienda americana che ha ottenuto un pacchetto di copiosi aiuti pubblici per investire in uno Stato Usa fa marcia indietro.

E , soprattutto, è la prima volta che le autorità locali e la società civile alzano la voce per esigere da un colosso privato non solo promesse di posti di lavoro a venire, di future entrate fiscali e di non ben quantificabili 'trasferimenti di conoscenze'. Amazon, in particolare, non è abituata a farsi dire di no. Quando Seattle impose una tassa alle grandi imprese sul suo territorio per finanziare progetti per i senza tetto, Amazon pestò i piedi, minacciando di levare le tende. Il Comune eliminò il balzello. E dalla sua fondazione, nel 1994, Amazon ha sempre trovato il modo di impedire ai sindacati di farsi breccia nei suoi stabilimenti e magazzini, arrivando a intentare cause legali. Il gran rifiuto di New York è dunque significativo e può creare un precedente. È all’incirca dagli anni Novanta, infatti, che negli Stati Uniti a un’azienda basta sventolare la prospettiva di impieghi per generare una gara fra le città: chi offre più incentivi vince la nuova sede del gigante – che poi non è vincolato a creare i posti o l’indotto previsto e che spesso, in effetti, non lo fa.

Una prassi pressoché impossibile in Europa – dove l’unica forma di competizione fra autorità locali per attirare investimenti stranieri (le diverse aliquote fiscali imposte alle imprese dalle singole nazioni) vuole essere superata dalla Ue – ma che ora anche alcuni economisti Usa han- no cominciato a mettere in dubbio. Da qualche anno negli Stati Uniti ha cominciato infatti a circolare l’idea che fare regali alle imprese private per convincerle ad investire sul proprio territorio sottrae denaro all’istruzione e alle opere pubbliche, che sono invece misure più efficaci di una nuova fabbrica per sollevare le economie locali. Questi concetti sembrano aver attecchito nel tessuto politico, da dove stanno riaffiorando. Quando ha saputo, a quanto pare con una breve e brusca telefonata, che Jeff Bezos aveva cambiato opinione sulla sua città, il sindaco di New York Bill de Blasio ha cominciato a lamentarsi del ruolo delle grandi aziende nel far crescere le diseguaglianze negli Usa e del risentimento che questo sta provocando nella popolazione. In un editoriale sul 'New York Times' ha quindi scritto che le imprese devono collaborare maggiormente con le realtà locali e assumersi veri impegni sociali. Termini che compaiono da tempo nei 'bilanci sociali' delle aziende, ma che raramente negli Stati Uniti si sentono utilizzati dai politici, persino nelle fila del partito democratico, per il quale, sebbene sia il più a sinistra fra i due che si alternano al potere negli Stati Uniti, il dogma del libero mercato resta intoccabile.

Qualcosa deve essere cambiato, però, se il democratico de Blasio è arrivato a scrivere che «le aziende non possono più ignorare la crescente rabbia per le disuguaglianze economiche. Una rabbia esplosa nella Silicon Valley, con le pietre scagliate contro gli autobus che trasportano i dipendenti dei colossi della tecnologia. E nelle proteste a Davos sul crescente monopolio del potere corporativo ». O se la giovane stella nascente democratica Alexandria Ocasio-Cortez fa notare che «lo stesso giorno in cui Amazon ha annunciato la decisione di bloccare la costruzione del secondo quartier generale a New York, si è appreso che la società non pagherà alcuna imposta sul reddito federale sui miliardi di profitti realizzati l’anno scorso».

Altri politici locali hanno allargato il tiro, sostenendo che «i sussidi per le imprese sono una politica terribile», nelle parole del consigliere comunale Jimmy Van Bramer, perché, «non fanno nulla per sollevare la crescita del Paese. Le sovvenzioni per lo più ridistribuiscono il reddito verso l’alto, dai contribuenti agli azionisti aziendali». Mentre la senatrice Elizabeth Warren, candidata alla presidenza nel 2020, ha chiesto esplicitamente di mettere fine a questa forma di «bustarelle per le imprese con il denaro dei cittadini ». Quello che è cambiato, e che i politici, in un anno pre-elettorale, hanno intuito, è l’umore di parte dell’elettorato americano e la sua crescente intolleranza per lo strapotere delle grandi multinazionali. Non si spiegherebbe altrimenti il nuovo atteggiamento di sindaci, parlamentari e aspiranti presidenti, anche democratici, che per decenni hanno usato gli incentivi alle aziende come arma elettorale, vantandosi, alla fine del loro mandato, di aver contribuito alla creazione di migliaia di posti di lavoro.

La maggior parte delle città americane non sono certo come New York, che dispone già di oltre quattro milioni di posti di lavoro e può permettersi di dire no a 25mila impieghi se un azienda non gioca alle sue regole. Ma la porta sbattuta in faccia a Bezos ha fatto rumore ed altri politici hanno preso nota della reazione degli elettori. Ora che il sindaco de Blasio ha alzato il tiro anche su Uber, di certo le imprese americane possono aspettarsi qualche sassolino in più sui tappeti rossi che sono abituate a vedersi stendere sotto i piedi. E anche qualche sconto in meno, come succede già dall’altra parte dell’Atlantico, dove le mega-multe inflitte alle grandi aziende per violazione delle regole sulla competizione dalla Commissione europea, le regole comunitarie di base sul mercato del lavoro e ora lo sforzo dell’Unione Europea per armonizzare le aliquote fiscali per le imprese rivelano una determinazione consolidata a unirsi per potere, insieme, tener testa ai capricci del gigante di turno.

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