L'altro siamo anche noi
mercoledì 16 maggio 2018

Papa Francesco sta svolgendo in questi anni, oltre alla sua funzione specifica di massima autorità religiosa della Chiesa cattolica, un ruolo di supplenza etica a lui riconosciuto persino dai non credenti: la lettera che i vescovi italiani, nella solennità di Pentecoste, rivolgeranno alle comunità accoglienti, intitolata "Uscire dalla paura", lo dimostra appieno. Questo testo, a venticinque anni dal documento "Ero forestiero e mi avete ospitato", riassume la storia più recente del fenomeno migratorio gettando le basi per un rinnovamento antropologico di portata storica.

Nel 1993 gli immigrati regolari in Italia non raggiungevano il milione: erano una piccola avanguardia rispetto a quelli che sarebbero venuti dopo. Oggi sono quintuplicati, popolano le scuole, accudiscono gli anziani, contribuiscono a pagare le nostre pensioni, contrastano la denatalità, tuttavia mentre nell’ultimo triennio gli stranieri non aumentano, gli italiani che partono in cerca di lavoro si moltiplicano. Ben cinque milioni di nostri connazionali vivono all’estero: lo stesso numero di quelli che arrivano dai Paesi poveri. È questa la dimensione speciale, a volte sottaciuta, del discorso che stiamo facendo. L’altro siamo anche noi, dipende solo dalla posizione, geografica e spirituale, in cui scegliamo di metterci: o chiusi dentro il castello incantato, spesso dal volto digitale, a protezione di identità prosciugate dalla mancanza di vere relazioni, oppure aperti allo scambio umano, pronti a esporci, a metterci in gioco, a scoprirci per ciò che davvero siamo.

Vincere la paura possiede quindi un doppio registro: esteriore, nei confronti della persona da incontrare – può essere il nigeriano che ci chiede l’elemosina di fronte al supermercato, il compagno di classe di nostro figlio, la collega di lavoro – e interiore, riguardo ai fantasmi che ci assillano: nodi non sciolti, timori, indifferenze, ignoranze, pregiudizi, velleità, egoismi, individualismi.
Si tratta, è bene ribadirlo, di un lavoro culturale, non naturale. L’istinto umano è diffidente. Bisogna illuminarlo e guidarlo: in quali altri luoghi ciò si può fare se non nella scuola e in famiglia? Ecco perché, come la lettera della Conferenza episcopale ben spiega, siamo di fronte a una sfida educativa di notevoli proporzioni. Ma se non ci sono valori di riferimento forti, perlomeno civili, siamo destinati al fallimento esistenziale. Eppure, soprattutto gli adolescenti, quanta necessità avrebbero di adulti in grado di incarnare il limite da non superare, modelli di persone che hanno deciso di percorrere una strada, magari la più difficile, e lo fanno con «l’audacia, il realismo, la responsabilità, l’intelligenza, la creatività e la prudenza» che i vescovi auspicano! Fa impressione l’assenza di una visione d’insieme della nostra politica, tutta centrata su obiettivi pratici, economici, legati ai sussidi, alle assistenze, alle tasse, insomma alla lista della spesa. Cose fondamentali, è ovvio, ma il governo nazionale non si può ridurre all’amministrazione di una grande azienda. In tal senso la «convivialità delle differenze» che la nuova società multietnica lascia intravedere e a cui ci spinge il testo della Cei, rappresenta l’unica possibilità che abbiamo per uscire dall’atrofia dei programmi tecnici. Tale impegno militante chiama in causa l’intera cittadinanza italiana. Senza distinzioni sociali.

Ma esiste poi, in questa lettera, un altro aspetto ancora più importante per le comunità ecclesiali, oltre al senso teologico: se il cristianesimo dimentica che ognuno di noi, non solo i battezzati, è fatto a immagine e somiglianza del Creatore, nell’annuncio giovanneo della parola di Dio che è diventata uomo, smarrisce la sua stessa essenza. Quando Gesù sfama la folla non chiede né controlla l’appartenenza alla fede, porta semmai a compimento il memorabile augurio di Isaia (55, 1): «O voi tutti assetati venite all’acqua, / chi non ha denaro venga ugualmente; / comprate e mangiate senza denaro / e, senza spesa, vino e latte».

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