lunedì 15 giugno 2015
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Nel breve discorso che il papa Francesco ha rivolto ieri al Consiglio superiore della magistratura ci sono due passaggi che fanno a lungo pensare, per la schietta semplicità con cui portano in piena luce alcune radici profonde del tema della giustizia di cui poco ci si cura. La prima è la funzione comunitaria della giurisdizione (nel senso letterale di "dire il giusto"); è il popolo che ridice per bocca del giudice la fedeltà alla regola, il rimedio alla sua violazione, il ripristino della sua maestà. La seconda è una sorta di analisi critica della giustizia proclamata, o rivendicata, nel compendio dei diritti umani, rispetto a quella realizzata in concreto nelle relazioni umane. E benché sia più facile commentare l’appello alla giustizia come argine alla devianza, alla disonestà, alla corruzione, anche per via di alcune cronache attuali che ci tengono svegli e rabbiosi, mi par giusto riflettere oggi sui punti meno esplorati e più difficili del mestiere degli uomini in toga.Primo: non c’è giudice che parli in nome proprio, ma "in nome del popolo". L’epigrafe che sta in cima a ogni sentenza, e che dice così, ha la serietà di una laica liturgia. Chi giudica esercita bensì un potere, ma che non gli appartiene, non promana da lui, gli vien dato. Se la sovranità appartiene al popolo, chi giudica è ministro (cioè servitore) di quella sovranità che si esprime nella legge. C’è un passo singolare, nella formula con cui il cittadino comune chiamato a far da giudice in una corte d’assise giura fedeltà al suo mandato: «affinché la sentenza riesca quale la società l’attende». Questa attesa sociale inserisce nel compito del giudicare la presenza simbolica dell’intero villaggio; ma attenzione, non per assecondare gli umori casuali, ma per restar fedeli alla legge obbiettiva, cioè a quel vincolo condiviso che il popolo ha accolto come legge. Non per nulla la formula così prosegue, circa la sentenza attesa dalla società: come «espressione di verità e giustizia». Questo bisogno di purezza nell’esercizio della giurisdizione esclude ogni palcoscenico, ogni disinvolto soggettivismo. Giustizia è bilancia, basta un fiato a stararla. Giustizia è verità, in essa il popolo ritrova luce. L’altro singolare accenno fatto dal papa Francesco con la sua schietta immediatezza riguarda i "diritti umani". Tutti  siamo fieri, orgogliosi di averli proclamati, inseriti nelle nostre Carte, scolpiti nelle Dichiarazioni universali; tutti sentiamo che attestano la nostra civiltà, raggiunta a tappe, segnata da propositi e da rimorsi, vogliosa di realizzazione, di totalità. E può sembrarci strano che qualcuno ci dica che in quella categoria si possono introdurre abusi, che quel marchio può essere usurpato da condotte che non sono umane, ma contrarie alla dignità umana. Ma è in questo preciso punto che il quesito ultimo sulla giustizia ci penetra in cuore come un assillo, e cerca più solido fondamento di quanto c’è scritto sulle tavole, sul consenso, sugli umori, sulle statistiche, sulle rivendicazioni, sui cataloghi dei diritti censiti, sulle dimensioni del desiderio inappagato. Cerca verità. Interrogando la natura umana, noi abbiamo enunciato «i diritti inviolabili dell’uomo». Non li abbiamo potuti elencare, o meglio abbiamo lasciato l’elenco aperto, perché il cammino della civiltà ce ne ha disvelati volta a volta di nuovi, a più fine intelligenza e a più aperto cuore. Ma a volte ci siamo dimenticati che l’intero mondo dei diritti abita nel territorio della relazione umana. Nessun diritto consiste senza che un "altro" vi si impieghi. Così non ha senso dire che ho diritto all’istruzione se non c’è maestro che m’insegni, o diritto alla salute se non c’è medico che mi curi, o diritto alla felicità se non c’è nessuno che mi voglia bene. Lo stesso articolo della nostra Costituzione dedicato ai diritti umani si chiude con la richiesta di «solidarietà». Se dunque la solidarietà è coessenziale ai diritti umani, non sono diritti umani quei desideri che infrangono la solidarietà, che trattano un altro essere umano come mezzo anziché come fine, che cercano una felicità egocentrica a prezzo di disordine o di disprezzo della felicità degli altri. Non si è felici contro, non si è felici da soli.
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